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In dottrina è stata ventilata la possibilità di prevedere un risarcimento del danno per rottura unilaterale del rapporto di convivenza more uxorio, al fine di tutelare il convivente più debole. Le soluzioni adottate per rendere possibile questa ipotesi sono di diverso tipo.
Vi è chi ritiene che una tutela non sia possibile attraverso il dettato dell’art. 156 c.c. perché quest’ultimo, essendo strettamente correlato con l’art. 143 c.c. (diritti e doveri dei coniugi), presuppone la presenza di un atto di matrimonio che rappresenta l’impegno di due soggetti di “continuare indefinitivamente nella prosecuzione del rapporto”; la convivenza invece non presenta nessun obbligo di prosecuzione e di conseguenza non si può ravvisare responsabilità dei conviventi per la rottura della loro unione. La non applicabilità dell’art. 156 c.c. però, secondo questa parte della dottrina, non esclude che si possano proteggere interessi meritevoli di tutela quale ad esempio quelli del convivente più debole. Pertanto sarebbe astrattamente possibile trovare una adeguata protezione nell’art. 129 c.c. che attribuisce al giudice il potere, in caso di matrimonio putativo, di disporre a carico di uno dei due soggetti l’obbligo di corrispondere somme di denaro (per un periodo non superiore ai tre anni) a favore dell’altro quando quest’ultimo non abbia adeguati redditi. Questo articolo trova applicazione al caso della convivenza more uxorio perché fa riferimento ad una situazione in cui un soggetto ha fatto affidamento in una condizione (matrimonio) poi annullata, e la stessa circostanza si può ravvisare in un rapporto di fatto tanto consolidatosi nel tempo da indurre il convivente a ritenerlo duraturo e simile ad un rapporto coniugale di fatto, anche se rimesso alla spontaneità del consenso delle parti. In entrambi le situazioni, matrimonio putativo e convivenza more uxorio, ci si ritrova nell’ambito dei doveri di solidarietà costituzionalmente tutelati dall’art.2, infatti in base a questo principio non si può affermare che la rottura della famiglia di fatto, che rientra tra le formazioni sociali tutelate dalla costituzione, non crei nessun obbligo di solidarietà in capo ai suoi componenti. Concludendo l’art.129 c.c. può essere letto come un’esplicazione dei doveri di solidarietà sanciti dall’art.2 della Costituzione.
La soluzione adottata da altra dottrina è invece diversa: si nega la possibilità di applicare la disciplina prevista per la famiglia legittima con riferimento ai diritti e doveri, in caso di scioglimento del rapporto (divorzio) e con riferimento ai diritti patrimoniali, ravvisando una soluzione di tutela nell’art. 80 c.c che protegge dai pregiudizi che potrebbero derivare da una rottura ingiustificata della promessa di matrimonio, stabilendo la possibilità di richiedere in restituzione i doni fatti a causa della promessa stessa.
Questa soluzione può essere adottata anche per il convivente che abbia subito una rottura unilaterale del rapporto di fatto su cui aveva fatto affidamento, nascendo così in capo a quest’ultimo, in base ai pregiudizi economici subiti e accertati, il diritto ad avere un risarcimento, anche se il rapporto di convivenza è informale (situazione che esiste anche nel caso di matrimoni solo religiosi).
Vi è infine chi, pur vedendo dei limiti alla possibilità di configurare un risarcimento danni per rottura unilaterale della convivenza more uxorio, non ritiene che la libertà, che è fondamento di questo tipo di rapporto, si debba risolvere in un arbitrio e sopraffazione da parte del convivente più forte. Tale tesi, sostenuta principalmente dal Liuzzo, ricerca una soluzione in una teoria che utilizza il generale principio di solidarietà sociale nell’ambito della responsabilità civile: l’ingiustizia subita dal convivente più debole, dovuta ad un comportamento del proprio partner non conforme ai doveri di correttezza, crea un danno ingiusto perché si tratterebbe di doveri-obblighi che pur non essendo previsti da nessuna legge, esistono per rendere possibile una convivenza pacifica, feconda e rispettosa tra tutti gli individui. Questi obblighi operano anche fra individui tra cui non esiste nessun vincolo giuridico quindi al di là di un’obbligazione o di un contratto, prendendo in considerazione solo le relazioni interindividuali e tra queste vanno ricomprese le relazioni di fatto.
La dottrina e la giurisprudenza dominanti (anche se quest’ultima si è occupata poco di questo aspetto) escludono nettamente la possibilità di configurare tale tipo di risarcimento.
Si argomenta che la convivenza more uxorio è caratterizzata dall’essere un nucleo basato sulla spontaneità del comportamento e dalla libertà, dal quale non discendono obblighi e diritti giuridici, i soggetti al suo interno non si obbligano alla prosecuzione del rapporto, vivono nel presente e nella conferma quotidiana del rapporto stesso. Nascendo da una libera volontà dei conviventi essa può cessare nello stesso modo, nella libera volontà di entrambi o di uno solo di essi, senza che questo faccia nascere in capo ai partners una responsabilità, non essendo a priori configurabile una promessa di impegno. In base a ciò se il convivente ha abbandonato il proprio partner, anche senza giustificato motivo, non violando nessuna norma e non ponendo in essere nessun illecito, non causa un danno ingiusto e non crea una situazione idonea a far scaturire in capo alla “parte lesa” un diritto al risarcimento.
Sono da ritenere inammissibili, secondo questa tesi, tutte le soluzioni precedentemente esplicate. Il richiamo all’art. 129 c.c. è inammissibile perché pone sullo stesso piano situazioni diverse tra di loro: il matrimonio putativo è pur sempre una condizione che presuppone un atto anche se poi annullato, mentre la convivenza more uxorio prescinde da qualsiasi atto. Il matrimonio putativo inoltre è comunque la dimostrazione che due soggetti vogliono assumere obblighi e diritti che nascono dall’atto di matrimonio, mentre la convivenza rappresenta proprio la volontà di non assumere questi doveri.
Critiche vengono mosse anche alla soluzione basata sull’applicabilità dell’art. 80 c.c. perché si fa una considerazione troppo superficiale dell’atto di matrimonio e per supportare la tesi si fa richiamo ad una situazione, quella del matrimonio solo religioso, che non ha rilevanti riscontri essendo oggi un’ipotesi rarissima.
Accettare la possibilità di concedere un risarcimento per il convivente abbandonato porterebbe all’introduzione di un concetto di addebitabilità usato in maniera simile alla disciplina prevista dall’art.156 c.c. (tra l’altro le due norme disciplinano concetti diversi) introducendo così tra i conviventi non solo l’obbligo di mantenere comportamenti non ingiuriosi l’uno verso l’altro, ma anche un obbligo di fedeltà. Va rilevato, comunque, che il concetto di addebitabilità della separazione, nella famiglia legittima, non ha questa funzione: il coniuge cui si addebita la separazione non è tenuto a versare nessuna somma di denaro e il coniuge abbandonato ottiene l’unico vantaggio dell’essere esonerato, nel caso che ciò sia richiesto, dal provvedere al mantenimento dell’ex coniuge, avendo così una maggiore disponibilità del proprio patrimonio qualora voglia fare testamento.
Non si può dire che l’ipotesi descritta sia configurabile come un risarcimento e tra l’altro il concetto stesso di addebitabilità tende a scomparire per la stessa famiglia legittima.
Non esistendo un dovere giuridico di assistenza in costanza di un rapporto di convivenza non può configurarsi un dovere di tal genere alla fine del rapporto stesso; all’interno della coppia che convive more uxorio vi sono solo doveri di ordine morale e questi possono esplicarsi nel momento della cessazione della convivenza solo volontariamente, infatti nulla vieta che un convivente (più forte) corrisponda al proprio partner una somma di denaro che assume per esempio la forma di indennizzo. La stessa giurisprudenza ha ritenuto che la dazione volontaria di una somma di denaro al momento della cessazione del rapporto di fatto configura una obbligazione naturale e pertanto sottoposta al principio della soluti retentio.
Il problema in questione, quindi, può essere risolto solo tramite soluzioni che nascono dalla spontaneità di comportamenti posti in essere dai conviventi e non è possibile ravvisare nel nostro ordinamento norme che pongano obblighi giuridici in capo ai conviventi more uxorio al momento della rottura del rapporto.
Questione analoga è quella attinente alla possibilità di ottenere un mantenimento post convivenza. La dottrina non si è curata di questo aspetto dando per pacifico il fatto che non essendoci, come analizzato, un obbligo giuridico di mantenimento in costanza di convivenza, ma eventualmente adempimento di una obbligazione naturale, non può esserci di certo un obbligo giuridico previsto per il caso di cessazione del rapporto.
La giurisprudenza è sulla stessa linea di pensiero: si possono, in particolare, citare due sentenze[1] dove viene respinta la richiesta di mantenimento per insussistenza del fumus boni iuris, sulla considerazione per cui, allo stato attuale, non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma che sancisca questo diritto, inoltre la convivenza more uxorio è caratterizzata dai connotati della precarietà e della revocabilità unilaterale senza che vi si ricolleghino diritti e doveri se non quelli di carattere morale. Anche in questo caso ci si può solo affidare a prestazioni spontanee e volontarie sottoposte al principio della irripetibilità ex art. 2034 c.c..
Dott..ssa Carla Florio
Breve bibliografia:
Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli, 1980, pp.267 e ss., id. A proposito di una recente monografia in tema di “famiglia di fatto”, in Riv. dir. civ., 1984, I, pp.200 e ss.;
Santilli, Note critiche in tema di “famiglia di fatto”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, II, pp.842 e ss.
Liuzzo, Alcuni aspetti civilistici della convivenza more uxorio alla luce dei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Dir. fam. e pers.,1991, II, pp.817 e ss.
Cass.20 gennaio 1989, n.285, in Arch. Civ., 1989, I, pp.498 e ss.,
Cass. 29 novembre 1986, n.7064, in Foro it., 1986, pp.804 e ss., Cass.15 gennaio 1969, n.60, in Riv.dir.comm., 1969, II, pp.403 e ss., Cass. 25 gennaio 1960, n.68, in Foro it., 1961, I, c. 2017, Cass. 17 gennaio1958, n.84, in Foro it,. 1959, I, pp.470 e ss..
Trib. Milano 8 febbraio 1990, in Foro it., 1991, I, pp.329 e ss., Trib. Napoli 8 luglio 1999, in Fam. e Dir., 2000, n.5, pp.501 e ss. con nota di Morello Di Giovanni.
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