Un danno all’immagine di una struttura pubblica può sussistere ed essere perseguibile innanzi a questo Giudice contabile, unicamente se derivante da reato

Lazzini Sonia 21/10/10

In proposito, appare non inutile premettere – anche se tale aspetto non ha formato oggetto degli appelli ma solo di un intervento della difesa in pubblica udienza – che in materia è intervenuta, medio tempore, la novella di cui all’art. 17, comma 30-ter del decreto-legge 1 luglio 2009 n. 78, convertito con legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1, comma 1 lettera “c” del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito con legge 3 ottobre 2009, n. 141.

Tale disposizione, ai periodi secondo e seguenti reca testualmente: “Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”.

Dispone a sua volta l’art. 7 della L. n. 97/2001: “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinchè promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

Il legislatore della novella ha quindi stabilito – per quel che qui interessa – che un danno all’immagine di una struttura pubblica potrà sussistere ed essere perseguibile innanzi a questo Giudice contabile, unicamente se derivante da reato: v., al riguardo, la (pur ampia) interpretazione che della norma ha fornito la Sezione giurisdizionale Lombardia di questa Corte dei conti nella sentenza n. 641 del 20 ottobre 2009.

Tanto premesso – e prescindendo dalla stessa circostanza che la norma in esame, proprio in ordine alle limitazioni poste alla perseguibilità del danno all’immagine è stata sospettata di illegittimità costituzionale (v. Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lombardia, 23.12.2009, n. 237/ord.; Sezione giurisdizionale Campania, 14.10.2009, n. 369/ord.; Sezione I app., 17.3.2010, n. 6/ord.), con il relativo giudizio attualmente pendente innanzi al Giudice delle leggi – nella presente fattispecie la norma non può trovare applicazione per la fondamentale ragione che era intervenuta, anteriormente all’entrata in vigore della legge di conversione, la sentenza di primo grado: per cui l’emissione di una sentenza di appello sul danno all’immagine è consentita, essendo irrilevante, nel presente giudizio, lo ius superveniens (inapplicabile appunto in presenza di una decisione, anche non definitiva): cfr., in terminis, Corte dei conti, Sezione I app., 5.10.2009, n. 569.

Quanto alla prospettata illegittimità costituzionale della norma, che opererebbe un diverso trattamento fra coloro che hanno già avuto una sentenza di condanna in primo grado e coloro che, invece, non l’hanno subita, la questione si presenta manifestamente infondata, dal momento che il legislatore ha piena discrezionalità nel differenziare le diverse situazioni che si sono susseguite nel tempo, dando loro una differente disciplina; né appare rilevante, poiché nella specie la condanna della Sezione territoriale è intervenuta sulla base di una sentenza penale irrevocabile di condanna e per una fattispecie di reato che si attaglia del tutto alle ipotesi previste dalla norma in contestazione come legittimanti la perseguibilità del danno all’immagine ad opera della procure della Corte dei conti, e cioè i reati contro la Pubblica Amministrazione.

Quanto al danno all’immagine, viene riproposta in appello la medesima eccezione dedotta in primo grado sulla mancata prova del danno all’immagine e sulla immotivata determinazione equitativa dello stesso in assenza di un riferimento alle spese sostenute dalla P.A. per il ripristino dell’immagine lesa.

L’eccezione non ha pregio, poiché – a prescindere dal clamor fori che la celebrazione di un processo per tangenti, in special modo nel periodo risalente agli anni ’90, in cui si sviluppò il fenomeno noto sotto il nome di “Mani Pulite” – provoca sulla collettività amministrata, c’è da dire che la Procura Regionale attrice ha fornito ampia prova della pubblicità data dagli organi di informazione allo specifico processo che ha visto gli attuali appellanti in veste di imputati e condannati.

Deve dunque ritenersi che tale episodio abbia contribuito, insieme ad altri, ad alimentare quel clima generale di sfiducia, se non addirittura di discredito, nei confronti della classe dirigente, che nei primi anni ’90 investì l’Italia a causa dei numerosi processi che videro condannati per corruzione e concussione diversi esponenti politici ed alti dirigenti e che ebbe molte ripercussioni anche a livello locale.

Per quel che concerne le contestazioni sul danno all’immagine subito dall’Amministrazione di appartenenza, si soggiunge che la natura di questo tipo di danno consente di prescindere sia dalla reale effettuazione di spese per il ripristino del bene immateriale leso o dalla loro programmazione (Sez. Lazio, n. 1723 del 11.4.2001; n. 3945 del 5.11.2001) sia dall’analitica dimostrazione dei costi sopportati o sopportabili per la reintegrazione del bene leso, essendo sufficiente fornire anche solo un principio di prova (Sez. II centr., n. 338/2000) e ben potendo il prudente apprezzamento del giudice fondarsi su circostanze ed elementi disparati (Sez. II, n. 130 del 17.4.2002).

Tale tipo di danno presuppone l’esplicazione di una condotta che abbia causato la reiterata violazione dei doveri di servizio e abbia comportato una lesione all’immagine dell’ente.

Rammenta questo Giudicante che la giurisprudenza contabile ritiene che per l’accertamento del clamore sociale si debba fare riferimento alla risonanza e diffusione che la condotta illecita ha avuto nell’ambiente lavorativo e socio-economico presso cui operano i convenuti, a partire dall’ente pubblico di appartenenza; alla sussistenza di risonanza sociale negli ambienti giudiziari, nonché al grado di diffusione della notizia nell’opinione pubblica.

Appare evidente che nella fattispecie esaminata erano presenti tutti gli elementi richiesti, ivi inclusa la risonanza dell’evento.

Nella fattispecie la scoperta del fatto, il risalto dato allo stesso dalla stampa, i procedimenti giudiziari protrattisi per anni nei confronti degli appellanti hanno determinato, secondo quanto comunemente è percepito, un discredito per l’amministrazione di appartenenza, percepita in una immagine negativa di struttura gestita in maniera inefficiente, non responsabile né responsabilizzata

 

 

A cura di *************

 

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SEZIONE

ESITO

NUMERO

ANNO

MATERIA

PUBBLICAZIONE

PRIMA APPELLO

Sentenza

494

2010

Responsabilità

01-09-2010

494/2010/A

°°°°°°°

REPUBBLICA ITALIANA

CORTE DEI CONTI

SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE

Composta dai seguenti magistrati:

Dott. Vito MINERVA Presidente

Dott. ***********************************

Dott.ssa ************************************************

Dott.ssa *********** Consigliere relatore

Dott. ***********************************************

ha pronunziato la seguente

SENTENZA

Nei giudizi di appello iscritti ai nn. 32354 e 32365 del Registro di Segreteria, proposti rispettivamente da:

  • –             P. Zeferino, rappresentato e difeso dall’ Avvocato ***************, presso il suo studio elettivamente domiciliato in Roma, Via G. Mercalli n. 13;

  • –             B. Armando, rappresentato e difeso dall’Avv. *******************, presso il suo studio elettivamente domiciliato in Roma, Via G. Mercalli n. 13;

avverso la sentenza n. 151/08, emessa in data 4.02.2008 dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lazio

e nei confronti del Procuratore Generale della Corte dei conti;

Visti gli appelli;

Visti gli atti e i documenti di causa;

Uditi, nella pubblica udienza del giorno 20 ottobre 2009, il Consigliere relatore dott.ssa **************, l’Avv. ************* su delega dell’Avvocato ****************** per gli appellanti ed il Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore ******** dott.ssa ***************;

Ritenuto in

FATTO

Con sentenza n. 151/2008 in data 4.12.2007 – 4.02.2008 la Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio ha condannato i signori Zeferino P. e ************* al pagamento della somma di Euro 77.648,73 (il P.) e di Euro 36.151,98 (il B.) oltre alla rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giustizia in favore dell’Erario statale per il danno all’immagine arrecato al Ministero dell’Economia e delle Finanze, avendo ricevuto – nelle rispettive qualità di ********************* del predetto Ministero e componente della c.d. “Commissione *******” il primo, e di Intendente di finanza interveniente nella sottoscrizione del contratto il secondo – tangenti in denaro per pari importo dal dott. *******, per conto del costruttore ****** in occasione dell’acquisto di due immobili da destinare a sede dell’UTE ed alla Conservatoria dei Registri Immobiliari.

La sentenza disponeva anche la conversione in pignoramento del sequestro disposto dalla Procura regionale su beni immobili e crediti del signor P..

I fatti venivano accertati anche in sede penale, con sentenza del Tribunale penale di Roma, 1^ Sez., del 17 gennaio 1997, di condanna degli appellanti per il reato di corruzione per avere ricevuto la dazione di lire 150 milioni il P., e di 70 milioni il B. per compiere atti contrari ai doveri di ufficio in relazione all’acquisto degli immobili siti in Roma, Via Ciamarra e Via Martini.

La condanna è stata confermata con sentenza della Corte di Appello di Roma, sez. I, n. 6946/2000, dopo che la Corte di Cassazione aveva nuovamente qualificato il reato ascritto in corruzione impropria per atti d’ufficio ai sensi dell’art. 318 c.p.

Entrambi gli interessati hanno proposto appello, formulando in via preliminare istanze di definizione agevolata ai sensi dell’art. 1, commi 231-233 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, che sono state respinte da questa Sezione di appello con decreti nn. 47/2009/A e 48/2009/A, depositati in Segreteria il 5 maggio 2009.

Glii appellanti hanno sostanzialmente dedotto identici motivi di gravame, che in sintesi si riportano:

– illogicità e contraddittorietà della sentenza, non potendosi configurare alcun nesso causale tra il comportamento del P. e del B. ed il presunto danno all’immagine, dal momento che la condanna è stata ricollegata alla risonanza che la vicenda ha avuto sulla stampa, la quale tuttavia derivò esclusivamente dall’evento dell’arresto che gli interessati si trovarono ingiustamente a subire;

– mancanza di motivazione sulla sostanza del danno all’immagine e sui criteri utilizzati per la sua quantificazione equitativa;

– mancanza della prova del danno, sub specie delle spese sostenute dall’amministrazione per il ripristino del prestigio leso;

– erroneità della sentenza laddove rende una pronuncia ultra petita statuendo che la somma individuata come danno all’immagine deve incrementarsi della rivalutazione e, dalla data della sentenza, cumularsi con gli interessi legali fino al soddisfo;

– omessa valutazione della circostanza che il P. avrebbe restituito l’importo della tangente percepita con gli interessi;

– insussistenza dei presupposti per la conversione del sequestro in pignoramento, non risultando, allo stato, alcun debito residuo a carico del P., tale da giustificare il mantenimento di vincoli sui beni mobili ed immobili di sua proprietà.

In conclusione, gli appellanti hanno chiesto la riforma della sentenza appellata e, in subordine, un largo uso del potere riduttivo.

Le medesime argomentazioni difensive sono state dagli appellanti ribadite con memoria del 30 settembre 2009.

Nell’atto conclusionale depositato il 29 settembre 2009 il Procuratore ******** ha precisato che dagli atti di causa risultano assolutamente provate sia la dazione che la ricezione delle somme e che i due appellanti sono stati definitivamente condannati in solido anche al risarcimento del danno non patrimoniale a favore dell’Amministrazione dello Stato costituitasi parte civile in sede penale, così che la sentenza penale irrevocabile emessa nei loro confronti ha efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità ai sensi dell’art. 651 c.p.p.. Ha poi precisato che il clamor fori suscitato dalle vicende che hanno interessato i due appellanti riguardava non l’arresto in sé ma l’ipotesi di reato di corruzione, in seguito accertata giudizialmente a loro carico; che la ragione del ricorso alla determinazione equitativa del danno all’immagine è insita nella natura stessa di tale danno, a prescindere dalle spese sostenute, così che i parametri posti a base della sua quantificazione si riferiscono per relationem a quelli, oggettivi e soggettivi, individuati dalla giurisprudenza in materia; che l’entità del danno nella specie così determinato appare congrua, anche se oggettivamente riduttiva rispetto alla pretesa attorea.

Il Procuratore ******** ha quindi chiesto la conferma della sentenza di primo grado, con condanna degli appellanti alle spese del giudizio di appello.

Nella pubblica udienza del giorno 20 ottobre 2009, udito il Consigliere relatore dott.ssa ***********, l’Avv. *************, su delega dell’ Avv. ********, in rappresentanza di entrambi gli appellanti, ha richiamato un profilo di possibile nullità degli atti istruttori in relazione al c.d. lodo ********. Ciò in quanto non vi sarebbe stata una concreta notizia di danno. La difesa ha prospettato, in subordine, una illegittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto la stessa prevede un diverso trattamento fra chi ha già avuto una sentenza di condanna e chi, invece, non l’ha subita. Ha chiesto pertanto l’accoglimento del gravame e, in subordine, l’applicazione del potere riduttivo.

Il Pubblico Ministero, nella persona del Vice Procuratore ******** dott.ssa ***************, si è riportato agli atti scritti, sottolineando la circostanza che lo ius superveniens non si applica a fattispecie già definite in primo grado.

Considerato in

D I R I T T O

I due appelli vanni riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto prodotti avverso un’unica sentenza.

1. L’eccepita nullità degli atti istruttori e la legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 30 ter, del D.L. n. 78 del 2009 –

In proposito, appare non inutile premettere – anche se tale aspetto non ha formato oggetto degli appelli ma solo di un intervento della difesa in pubblica udienza – che in materia è intervenuta, medio tempore, la novella di cui all’art. 17, comma 30-ter del decreto-legge 1 luglio 2009 n. 78, convertito con legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1, comma 1 lettera “c” del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito con legge 3 ottobre 2009, n. 141. Tale disposizione, ai periodi secondo e seguenti reca testualmente: “Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”.

Dispone a sua volta l’art. 7 della L. n. 97/2001: “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinchè promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

Il legislatore della novella ha quindi stabilito – per quel che qui interessa – che un danno all’immagine di una struttura pubblica potrà sussistere ed essere perseguibile innanzi a questo Giudice contabile, unicamente se derivante da reato: v., al riguardo, la (pur ampia) interpretazione che della norma ha fornito la Sezione giurisdizionale Lombardia di questa Corte dei conti nella sentenza n. 641 del 20 ottobre 2009.

Tanto premesso – e prescindendo dalla stessa circostanza che la norma in esame, proprio in ordine alle limitazioni poste alla perseguibilità del danno all’immagine è stata sospettata di illegittimità costituzionale (v. Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lombardia, 23.12.2009, n. 237/ord.; Sezione giurisdizionale Campania, 14.10.2009, n. 369/ord.; Sezione I app., 17.3.2010, n. 6/ord.), con il relativo giudizio attualmente pendente innanzi al Giudice delle leggi – nella presente fattispecie la norma non può trovare applicazione per la fondamentale ragione che era intervenuta, anteriormente all’entrata in vigore della legge di conversione, la sentenza di primo grado: per cui l’emissione di una sentenza di appello sul danno all’immagine è consentita, essendo irrilevante, nel presente giudizio, lo ius superveniens (inapplicabile appunto in presenza di una decisione, anche non definitiva): cfr., in terminis, Corte dei conti, Sezione I app., 5.10.2009, n. 569.

Quanto alla prospettata illegittimità costituzionale della norma, che opererebbe un diverso trattamento fra coloro che hanno già avuto una sentenza di condanna in primo grado e coloro che, invece, non l’hanno subita, la questione si presenta manifestamente infondata, dal momento che il legislatore ha piena discrezionalità nel differenziare le diverse situazioni che si sono susseguite nel tempo, dando loro una differente disciplina; né appare rilevante, poiché nella specie la condanna della Sezione territoriale è intervenuta sulla base di una sentenza penale irrevocabile di condanna e per una fattispecie di reato che si attaglia del tutto alle ipotesi previste dalla norma in contestazione come legittimanti la perseguibilità del danno all’immagine ad opera della procure della Corte dei conti, e cioè i reati contro la Pubblica Amministrazione.

2. Ciò premesso, quanto al merito il Collegio ritiene innanzitutto di precisare che la richiesta di condanna del Procuratore regionale ha trattato essenzialmente di due ipotesi di danno erariale: la prima riguardante l’acquisto da parte dell’amministrazione finanziaria di due immobili, rimasti poi inutilizzati, a prezzi superiori a quelli di mercato, ed i conseguenti esborsi per opere di urbanizzazione necessarie per il cambio di destinazione d’uso e a titolo di canoni di locazione di somme elevate, non essendo stato possibile utilizzare quelli individuati e prescelti ma risultati poi inidonei. In relazione a tali richieste la sentenza gravata ha mandato assolti i convenuti, non risultando sufficientemente provato da parte della pubblica accusa il danno erariale o il nesso di causalità con le condotte dei presunti responsabili.

L’altra posta di danno, che invece interessa il presente giudizio di appello, ha riguardato il danno non patrimoniale conseguente al discredito subito dall’amministrazione in ragione dei riflessi negativi derivanti dall’apertura di procedimenti penali a carico di pubblici dipendenti, il P. ed il B. (il *******, pure destinatario dell’atto di citazione, decedeva durante il giudizio di primo grado) per la percezione di c.d. tangenti in denaro nel corso della procedura di acquisto di detti immobili.

In relazione a tale posta di danno gli odierni appellanti lamentano illogicità e contraddittorietà della sentenza gravata, in ragione della mancanza di nesso causale tra il comportamento dei medesimi ed il presunto danno all’immagine.

La doglianza è infondata.

Osserva in proposito il Collegio che le condotte corruttive degli appellanti risultano definitivamente accertate in sede penale. E difatti con sentenza del Tribunale di Roma sez. V penale in data 17.01.1997 il P. ed il B. sono stati entrambi condannati alla pena di un anno e dieci mesi di reclusione per il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, avendo accettato dal Maresca illecite elargizioni di denaro. Gli appellanti sono stati altresì condannati in solido al risarcimento del danno non patrimoniale a favore dell’Amministrazione finanziaria, da liquidarsi in separata sede, nonché al pagamento delle spese di costituzione e difesa di parte civile.

Dagli atti di causa risultano assolutamente provate sia la dazione che la ricezione di somme, come emerge in modo evidente dai riscontri contabili effettuati dalla Guardia di Finanza e dalle ammissioni sia del corruttore Maresca che dei corrotti P. e B..

La Sez. III penale di appello di Roma ha peraltro confermato nei confronti dei due ricorrenti la sentenza di condanna di primo grado, mentre la sez. VI penale della Cassazione in data 23.09.1998 ha qualificato i fatti ascritti ai medesimi come corruzione impropria per atti d’ufficio ai sensi dell’art. 318 c.p., rinviando ad altra sezione d’appello di Roma per la determinazione della pena. Il giudizio di rinvio nei confronti dei due appellanti si è poi concluso con la riduzione della pena ad un anno e sei mesi di reclusione ed all’interdizione dai pubblici uffici per pari periodo, confermando nel resto la precedente statuizione.

In parte motiva della sentenza la Suprema Corte ha affermato che l’ipotesi criminosa prevista dall’art. 318 c.p. realizza attraverso l’accordo delle parti una violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale.

Con riferimento, in particolare, alla somma che il P. ha ricevuto a titolo di “prestito” dal Maresca, la Corte di Cassazione ha riconosciuto come legittimamente acquisite le dichiarazioni confessorie da quest’ultimo rese nel corso delle indagini preliminari, con cui asseriva che la somma promessa al P. costituiva “un premio se l’affare fosse andato bene” e che il P. ebbe un ruolo essenziale nel suggerire i modi con i quali riproporre ufficialmente a tutti i responsabili l’offerta dell’immobile, altrimenti la stessa non sarebbe stata presa in considerazione.

Il P. ed il B. risultano dunque definitivamente condannati in solido al risarcimento del danno non patrimoniale a favore dell’amministrazione dello stato costituitasi parte civile, da liquidarsi in separata sede.

Tutto ciò premesso, osserva il Collegio che, in applicazione dell’art. 651 c.p.p., nel presente giudizio di responsabilità la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Appare dunque evidente che i processi penali e quello contabile esaminati rappresentano una conseguenza diretta della condotta illecita posta in essere dagli appellati.

Pertanto non vi è alcun dubbio in ordine alla sussistenza del nesso causale tra la condotta illecita dei signori P. e B. ed il danno all’immagine patito dall’Amministrazione.

In considerazione di quanto premesso, correttamente motivata appare la sentenza di condanna di primo grado, e nessuna illogicità o contraddittorietà della motivazione può in essa ravvisarsi, dal momento che il clamore suscitato dall’arresto dei due appellanti, legittimo o illegittimo che fosse, riguardava non l’arresto in sé ma l’ipotesi di reato di corruzione, in seguito accertato giudizialmente come ricadente nella previsione dell’art. 318 c.p. anziché dell’art. 319 c.p.c.

In ogni caso, la veridicità degli illeciti denunciati, accertata nel corso dei successivi procedimenti penali, ha arrecato un pregiudizio esistenziale alla P.A., risarcibile patrimonialmente in via autonoma, a prescindere dalla circostanza che in seguito il P. abbia restituito l’importo delle tangenti percepite.

3. Quanto al danno all’immagine, viene riproposta in appello la medesima eccezione dedotta in primo grado sulla mancata prova del danno all’immagine e sulla immotivata determinazione equitativa dello stesso in assenza di un riferimento alle spese sostenute dalla P.A. per il ripristino dell’immagine lesa.

L’eccezione non ha pregio, poiché – a prescindere dal clamor fori che la celebrazione di un processo per tangenti, in special modo nel periodo risalente agli anni ’90, in cui si sviluppò il fenomeno noto sotto il nome di “Mani Pulite” – provoca sulla collettività amministrata, c’è da dire che la Procura Regionale attrice ha fornito ampia prova della pubblicità data dagli organi di informazione allo specifico processo che ha visto gli attuali appellanti in veste di imputati e condannati.

Deve dunque ritenersi che tale episodio abbia contribuito, insieme ad altri, ad alimentare quel clima generale di sfiducia, se non addirittura di discredito, nei confronti della classe dirigente, che nei primi anni ’90 investì l’Italia a causa dei numerosi processi che videro condannati per corruzione e concussione diversi esponenti politici ed alti dirigenti e che ebbe molte ripercussioni anche a livello locale.

Per quel che concerne le contestazioni sul danno all’immagine subito dall’Amministrazione di appartenenza, si soggiunge che la natura di questo tipo di danno consente di prescindere sia dalla reale effettuazione di spese per il ripristino del bene immateriale leso o dalla loro programmazione (Sez. Lazio, n. 1723 del 11.4.2001; n. 3945 del 5.11.2001) sia dall’analitica dimostrazione dei costi sopportati o sopportabili per la reintegrazione del bene leso, essendo sufficiente fornire anche solo un principio di prova (Sez. II centr., n. 338/2000) e ben potendo il prudente apprezzamento del giudice fondarsi su circostanze ed elementi disparati (Sez. II, n. 130 del 17.4.2002).

Tale tipo di danno presuppone l’esplicazione di una condotta che abbia causato la reiterata violazione dei doveri di servizio e abbia comportato una lesione all’immagine dell’ente.

Rammenta questo Giudicante che la giurisprudenza contabile ritiene che per l’accertamento del clamore sociale si debba fare riferimento alla risonanza e diffusione che la condotta illecita ha avuto nell’ambiente lavorativo e socio-economico presso cui operano i convenuti, a partire dall’ente pubblico di appartenenza; alla sussistenza di risonanza sociale negli ambienti giudiziari, nonché al grado di diffusione della notizia nell’opinione pubblica.

Appare evidente che nella fattispecie esaminata erano presenti tutti gli elementi richiesti, ivi inclusa la risonanza dell’evento.

Nella fattispecie la scoperta del fatto, il risalto dato allo stesso dalla stampa, i procedimenti giudiziari protrattisi per anni nei confronti degli appellanti hanno determinato, secondo quanto comunemente è percepito, un discredito per l’amministrazione di appartenenza, percepita in una immagine negativa di struttura gestita in maniera inefficiente, non responsabile né responsabilizzata.

4. Quanto all’affermata necessaria dimostrazione di specifiche spese dirette al ripristino del bene giuridico leso, si osserva che pur non essendo mancata, in passato, una giurisprudenza della Corte dei conti che ha ritenuto “necessaria la specifica dimostrazione di spese per il ripristino del bene immateriale dell’Amministrazione”, quella più recente, oramai consolidata, non ritiene necessaria la suddetta dimostrazione, in maniera più coerente con quanto sostenuto dalla Suprema Corte e dalla stessa giurisprudenza civile di merito che, nel caso di danno all’immagine subito da persone giuridiche, distingue il danno evento, costituito dalla lesione all’’immagine ed alla reputazione, dalle conseguenze patrimoniali negative che, eventualmente, ne sono conseguite.

Per tali ragioni va respinto anche il motivo di appello relativo alla necessità di prova delle spese sostenute, in quanto la lesione della reputazione delle Amministrazioni pubbliche è considerata autonomamente indennizzabile, indipendentemente dagli effetti patrimoniali negativi che ne derivano, risarcibili eventualmente ad altro titolo (Corte dei conti, Sez. riun. n. 10/2003/QM del 12/3/2003; Sez. I n. 82 del 2000; n. 56 del 2003 e n. 94 del 2007; Sez. II n. 298 del 2000; n. 80 del 2003 e n. 27 del 2004; Sez. III n. 242 del 2000 e n. 279 2001;Sez. Lombardia n. 1954 e n. 1696 del 2002, Sez. Lazio n. 2464 del 2002).

5. Con riferimento, poi, all’entità del danno addebitato ai ricorrenti, reputa questo Giudicante che, ai fini della sua determinazione la Corte Territoriale abbia fatto pertinente e corretto uso del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 cod. civile; di modo che vanno respinte le doglianze della difesa afferenti alla carenza probatoria in ordine al quantum debeatur.

Invero, anche in virtù dei principi espressi dalla sentenza n. 10/QM/2003 delle Sezioni Riunite di questa Corte, ai fini della quantificazione si può fare riferimento, oltre che alle spese di ripristino eventualmente già sostenute, a quelle ancora da sostenere. Il danno esistenziale è infatti pregiudizio che si proietta nel futuro e, pertanto, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi che sarà onere del danneggiato fornire e la relativa liquidazione non potrà che avvenire in via equitativa, di tal che la somma di denaro così determinata non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico.

In quest’ultimo caso tale valutazione, ex art. 1226 c.c., potrà fondarsi su prove, anche presuntive od indiziarie, tra cui le conseguenze negative che, per dato di comune esperienza e conoscenza, siano riferibili al comportamento lesivo dell’immagine.

Sussiste poi la possibilità di ricorrere, per la quantificazione del danno, a parametri diversi da quelli desumibili dalle spese, sostenute o da sostenere, per il ripristino dell’immagine. In via generale, i parametri da utilizzare in concreto per la quantificazione vanno rimessi alla valutazione che, nella propria discrezionalità, ciascun giudice saprà trarre dalle singole fattispecie (Sez. I Centrale, 11 luglio 2007, n. 194). Sussistono poi nel caso di specie, come già rappresentato dalla Procura Generale, tutti gli elementi sintomatici elaborati dalla giurisprudenza contabile, per l’individuazione del danno in discussione; sia quelli oggettivi legati alla gravità del fatto ed alla risonanza dello stesso all’esterno ed all’interno dell’Amministrazione, che quelli soggettivi, connessi alle delicate funzioni svolte dagli appellanti.

Il Collegio osserva che, per il caso di specie, il Requirente ha indicato i criteri e i parametri cui far riferimento per configurare, anche equitativamente, il danno al prestigio della P.A., prospettando sia la notoria rilevanza dell’evento penalmente rilevante, sia la sua diffusione a mezzo stampa e la risonanza sociale dello stesso.

Pertanto, avendo l’attore pubblico fornito la prova dell’an della lesione all’immagine dell’ente pubblico, il quantum è stato correttamente determinato, in via equitativa, dal primo giudice, anche se oggettivamente riduttivo rispetto alla pretesa attorea.

4. Ritiene infine il Collegio che non meriti accoglimento l’eccezione del P. sulla mancanza dei presupposti per la conferma del sequestro.

Ciò in quanto la sentenza di primo grado, in ragione del quantum di danno non patrimoniale addebitato al P., ha correttamente convertito il sequestro in pignoramento dei beni di sua proprietà, fino alla concorrenza della somma di cui è condanna in solido.

Pertanto, per effetto del disposto pignoramento, in sede esecutiva l’Amministrazione finanziaria avrà titolo all’incameramento delle somme finora trattenute cautelativamente, se satisfattive e solo nei limiti della condanna.

In ragione di quanto sopra esposto, la sentenza di primo grado non merita riforma ed i proposti gravami debbono essere respinti.

Restano assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso.

P.Q.M.

La Corte dei conti – Sezione Prima Giurisdizionale Centrale –

Definitivamente pronunciando, ogni altra contraria eccezione respinta

  • –             RIGETTA gli appelli proposti dai signori P. Zeferino e ********** avverso la sentenza n. 151/08 emessa dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio in data 4.02.2008;

  • –             CONDANNA gli appellanti al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in

  • –             Euro _365,36 (Trecentosessantacinque/36).

– MANDA alla Segreteria per gli adempimenti di competenza

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 20.10.2009. L’ ESTENSORE IL PRESIDENTE F.to Rita Loreto F.to Vito MINERVA

 

 

Depositato in Segreteria il 1/9/2010

 

 

IL DIRIGENTE DELLA SEGRETERIA

F.to *************

SEZIONE

ESITO

NUMERO

ANNO

MATERIA

PUBBLICAZIONE

PRIMA APPELLO

Sentenza

494

2010

Responsabilità

01-09-2010

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Lazzini Sonia

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