Un dibattito sotterraneo su legge & processo: verso un manifesto di giustizia

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La situazione economica italiana si fa osservare con grande preoccupazione. Nonostante gli annunci su una situazione di bilancio solo in parte liberatasi dall’emergenzialismo dell’ultimo triennio, non si intuiscono gli strumenti, i modi e i tempi per fuoriuscire dalla spirale recessiva che ci coinvolge, immobilizzando i consumi, aggredendo i redditi e impoverendo settori strategici del nostro Paese.

Il dibattito su questi temi non può non ricordare le suggestioni di certi dipinti olandesi, quelli in cui una batteria di medici e specialisti di alto bordo si contende la purezza della dottrina sul corpo agonizzante del malato o, peggio, come in Rembrandt, sul cadavere del giustiziato.

La convinzione più verosimile che possiamo maturare è che siano falliti tutti i tentativi di affrontare la questione economica in modo esclusivistico, slegandola dalle altre riforme che servono a un qualunque ordinamento giuridico democratico, contraddistinto, come il nostro, da decenni di immobilismo e di ingerenza delle agenzie rappresentative più forti.

Non si può concepire un’alternativa alla situazione italiana di oggi senza pensare alla drammaticità della questione giudiziaria: col presente documento, chiunque potrà agilmente verificare quanto l’azione diretta sui temi cruciali di tale questione possa produrre immediati benefici anche sulle problematiche economiche e civili che investono il Paese.

La giustizia è sofferente, a maggior ragione perché il dibattito degli ultimi vent’anni, soprattutto quello delle aule parlamentari, è stato tutto incentrato sulla natura emblematica di vicende singolari: una parte dell’assemblea tutta protesa a studiare se dal cambiamento di qualche norma potessero giungere dei vantaggi verso un particolare cittadino, uno e uno solo; l’altra restia a trattare qualunque ipotesi di modifica, temendo che dai cambiamenti potessero indirettamente ricavarsi benefici (anche) per quel cittadino. L’atteggiamento sarebbe parso persino giustificabile se avessimo passato l’ultimo decennio a vivere nel migliore dei mondi possibili: spostare anche solo una tessera, in un mosaico perfetto, rischia di compromettere tutto. Purtroppo, non abbiamo vissuto nel migliore dei mondi possibili e la maggior parte delle tessere del nostro mosaico legislativo è in disordine. Se il titolo dell’opera fosse “ordinamento giudiziario ed esigenze di giustizia”, vedremmo sulla parete un soggetto astratto, dove le poche figure nitide avrebbero le sembianze dei prigioni di Michelangelo.

Non pare siano riuscite a sfuggire a questa rappresentazione anche le diverse iniziative referendarie avvicendatesi negli anni. Persino l’ultima, che aveva dei profili meritori, è riuscita a conseguire soltanto su quesiti specifici il quorum previsto ai fini dell’indizione dei referendum, grazie all’intervento diretto di chi aveva più caldeggiato, anche o soprattutto per proprio utile, quelle stesse riforme, pur senza mai trovare la forza di attuarle.

Alcune urgenze improcrastinabili ci sono suggerite dalla stretta attualità di questi temi. Tanto per cominciare, la questione penitenziaria ci riconsegna dei numeri allarmanti e oggettivamente problematici rispetto ai principi costituzionali e allo statuto giuridico dei diritti umani giungente dal diritto convenzionale internazionale. Oltre a un evidente sovraffollamento delle case circondariali, che non nasce oggi ma che risale ad almeno trent’anni addietro, si evidenziano problemi enormi nel settore delle attività di reinserimento, nelle modalità di esecuzione della pena alternative al paradigma detentivo, nella eccessiva carcerizzazione di tipologie di reato, la cui offensività sociale sarebbe assai meglio contenuta in un quadro attento e circostanziato di depenalizzazioni.

L’ipertrofia dell’esercizio del potere legislativo si rivolge essenzialmente a categorie che non riescono a limitarla. Segnaliamo tre aspetti: una legislazione migratoria in più punti da emendare e in più punti drammaticamente vessatoria (si vedano i sopravvissuti ai recenti sbarchi, su cui pende ipso iure la scure della clandestinità), una legislazione in materia di sostanze stupefacenti che ha esponenzialmente aumentato il numero di soggetti coinvolti in procedimenti di questo tipo, ma che non ha avuto effetti risolutivi sul mercato illecito delle narcomafie, la mancata codificazione del reato di tortura.

La qualità dell’intervento legislativo resta bassa e asseconda gli umori del momento, anche per i fini più nobili: chi ha potuto leggere i testi licenziati sullo stalking, sull’omofobia e sul femminicidio, avrà certamente apprezzato gli intenti (solo occasionalmente) emersi nei lavori preparatori, ma poi avrà finito per storcere il naso dinnanzi alla debole accessibilità delle norme e all’impressione di una gratuita e artefatta complessificazione di disposizioni che avrebbero potuto essere concepite con un più deciso e chiaro riferimento a quei modelli internazionali cui pure si dichiarava di ispirarsi.

Non di solo diritto penale muore la giustizia italiana -pur essendo singolare che la principale fonte di diritto comune sia una fonte formale di derivazione pre-costituzionale.

È malato anche il rito civile. Con un colpo di bacchetta magica, si voleva imprimere al giudizio la scadenza ad un tot di anni invalicabile: una mossa senza senso, perché se si interviene solo sulla durata del procedimento, senza rendere quel medesimo procedimento più funzionale alle esigenze che deve tutelare, si contingentano le fasi procedurali rinunciando ad armonizzarle con gli interessi dei soggetti coinvolti. Un’ingiustizia che dura due anni e non cinque non diventa una forma di giustizia.

Mantenendoci alle problematiche di inquadramento civilistico, sarebbe doveroso sospendere l’estenuante (e infruttuoso) chiacchiericcio che sta riguardando l’Imu e tornare ad occuparsi di una questione abitativa che si fa sempre più sentire a danno dei non proprietari: le procedure esecutive sfuggono dal garantire, in ogni sua minima accezione, il diritto all’abitare e forse anche a causa d’esse l’aumento delle occupazioni abusive non è stato né tamponato né risolto. Non si può, inoltre, dar colpe della caduta di rappresentanza del mondo del lavoro e del non lavoro alla legislazione generale, ma la de-contrattualizzazione non ha aiutato il prestatore precario di nuova generazione, anche sul piano dei rimedi strettamente giurisdizionali.

Non è per fare disfattismo, sui temi sottoposti ad almeno alcune tornate riformatrici, contestare i modi attraverso cui, molto raramente, il legislatore ha inteso rendere più sistematiche le disposizioni di riferimento in alcuni ambiti. Il Codice antimafia è stata un’iniziativa i cui risultati pratici sembrano essersi limitati a un’opera di consolidazione delle leggi preesistenti (e, ciò non bastasse, con più di qualche problema di coordinamento rispetto alle nuove disposizioni introdotte).

Quella discussione, per altro verso, evitava accuratamente di aprire una riflessione sui regimi penitenziari irrogabili, sicché il noto e stigmatizzato 41-bis da misura una tantum sembra essere divenuto regola immodificabile e che, anzi, non raramente si auspica di estendere -dovrebbe, invece, essere prioritario armonizzarlo almeno col principio di proporzionalità.

Anche il perfezionamento di un processo amministrativo, formalmente autonomo dal rito civile e minormente preda di una selva di norme di legislazione speciale, non ha invertito un trend per cui il cittadino italiano finisce per sentirsi sempre svantaggiato nel confronto processuale con una Pubblica Amministrazione -e la P. A. non sembra riuscire a trarre un reale beneficio dalla maggior forza che esprime nella sede contenziosa, restando ostaggio di una burocrazia che ha aumentato in tutti i campi gli adempimenti, volta per volta, richiesti (salvo, va riconosciuto, il settore delle autocertificazioni, che pure andrebbe esteso, magari sottoponendolo a possibilità di riscontro e a obiettivi di trasparenza, non del tutto raggiunti).

Quanto al rito civile, la vicenda della conciliazione obbligatoria è stata la più attendibile testimonianza del malfunzionamento della divisione dei poteri in Italia. Non è in questione l’opportunità offerta da quelle modalità di risoluzione delle (o di prevenzione dalle) controversie che non passino dalla cruna dell’ago della giurisdizione. Sull’istituto, però, è a volte parsa poco collaborativa la posizione di alcune categorie forensi -la difesa di uno status quo in cui vi è molto poco di difendibile-, le quali avrebbero dovuto concentrarsi seriamente nel proporre ampi interventi modificativi, maturati sulla base delle esperienze d’aula; ancor più spesso, approssimativa è stata la condotta delle istituzioni, che immaginavano una riforma a costo zero, sbloccando nuove professionalità, e, però, licenziando un testo così attaccabile che si è avuto buon gioco a muovergli contro l’eccesso di delega.

Non è dato sapere se i tentativi di immettere nuovamente norme sull’esercizio della conciliazione avranno buon esito o faranno la fine tante volte verificatasi. Si spera almeno che si faccia tesoro dei troppi errori reciproci dell’ultimo quinquennio.

Ancor meno si parla della giurisdizione tributaria, benché tutti a parole si dicano contemporaneamente contrari alla grande evasione fiscale di nullatenenti nababbi e alla natura oggettivamente costrittiva del sistema (non è certo colpa delle sole disposizioni processuali, quanto piuttosto delle scelte politiche, sostanziali, che hanno investito sui livelli di tassazione per far -vanamente- quadrare i conti).

Questi temi riempirebbero l’agenda di un governo di legislatura. Non sarebbe imprevedibile se un esecutivo meno stabile scegliesse di non intervenire affatto.

Il punto è che l’equilibrismo parlamentare è un motivo di dilazione che si lascia accettare solo quando è a tempo. Quando, invece, le storture che si producono ne sono diretta conseguenza, per eliminarle davvero, l’unica strada è estirpare il cancro della paralisi, promuovendo reti, iniziative popolari che fuoriescano in forma di articolati da un serrato coinvolgimento di specialisti e “vittime” del sistema processuale, evitando come la peste i sensazionalismi che fanno scattare la trappola degli “opposti estremismi”. Non è un atto di sfiducia nei confronti delle istituzioni parlamentari. È semplicemente la presa d’atto dell’incongruenza, dell’incostanza e dell’inadeguatezza di troppa parte della loro iniziativa.

Dott. Bilotti Domenico

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