Una breve lettura sulla paternità

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Nel romanzo dedicato alla madre “Tu che mi ascolti” (2004) di Alberto Bevilacqua (uno dei tanti che si è ritrovato a fare da padre a suo padre immaturo) è adombrata la paternità, da quella indesiderata a quella evitata (oggi, anche a causa della precarietà lavorativa): “In me si era fatto ossessivo il pensiero che non ero padre, traumi e contagi materni mi avevano impedito di esserlo. Ne era nata una poesia. Fra le mie che considero più belle. L’avevo dedicata al figlio che non avevo avuto… La tenevo in vista sul mio tavolo di lavoro. Andavo a rileggerla per provarne una pietà tutta mia, per farmi del male. Un giorno, il foglio con la poesia scomparve. Quei versi a cui avevo dato il titolo Figlio evitato”. Quella paternità tanto contesa, soprattutto se naturale, a cui è dedicato l’art. 30 comma 4 della Costituzione dove si parla di “ricerca della paternità” non solo nel senso civilistico di riconoscimento, ma soprattutto nel senso psicologico e sociale. Anzi, essendo comprovato che l’uomo sente più tardi la paternità rispetto alla donna nei confronti della maternità e data anche la rilevanza filosofica e psicologica del vocabolo “ricerca”, si può risemantizzare la locuzione “ricerca della paternità”. La si può intendere specialmente come maturazione interiore di capacità, da parte di chi è padre o sta per diventarlo, di gestire la propria emotività, di aprirsi a qualcosa di nuovo, di stabilire una relazione senza difese, di impegnarsi responsabilmente. Non sono forse questi gli atti fondamentali di un uomo che intende svolgere un ruolo paterno, che è disposto a prendersi cura di persone che gli vengono affidate?[1] La paternità è una vera prova di maturità, che l’uomo deve superare per diventare adulto, per lasciarsi alle spalle il proprio passato e per imparare a diventare veramente padre. Non a caso il costituente ha usato il termine “Patria”, che deriva dal latino pater (padre), nell’art. 52 Cost. che è quello relativo alla difesa dello Stato. Alla luce di questo si può dare un significato nuovo e più profondo all’espressione civilistica “buon padre di famiglia” e all’art. 316 cod. civ. ove si legge “Se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili”, disposizione sempre criticata perché anacronistica. 

Una delle prime leggi speciali che ha valorizzato il ruolo del padre accanto a quello della madre è stata la legge 29 luglio 1975 n.405 “Istituzione dei consultori familiari”, il cui art. 1 alla lettera a) così recita: “L’assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile e per i problemi della coppia e della famiglia, anche in ordine alla problematica minorile”. La legge indica chiaramente il percorso: la maternità e la paternità si inseriscono e si vivono all’interno della coppia e della famiglia. Una maternità ed una paternità responsabile (da notare che la legge usa l’aggettivo al singolare, proprio per sottolineare che la responsabilità è comune) non considera solo il “tu”, il figlio che avrà o ha dinanzi, ma comporta il riconoscimento del “terzo”, cioè di ogni altro membro della società, familiare prima ed extrafamiliare poi, di cui si deve tener e a cui dar conto con la funzione educativa (responsabilità endofamiliare ed esofamiliare). Tra padre e madre non vi deve essere separazione di ruoli, ma definizione dei ruoli, in altre parole padre e madre devono essere portatori delle proprie caratteristiche, anche del sistema familiare d’origine (S.F.O.), per un’educazione completa. Purtroppo si sta assistendo ad una confusione o sovrapposizione di ruoli per cui si parla di matrizzazione dei padri o patrizzazione delle madri, precisando che non è “mammo” (espressione da evitare perché ha un’evidente accezione spregiativa) chi aiuta nelle faccende domestiche, ma chi si relaziona al figlio in maniera materna e quindi protettiva (o iper). La genitorialità (proprio perché tale) richiede entrambi i ruoli, al fine di garantire un armonioso rapporto dei bambini con chi ha dato loro la vita, anche ai fini di un’adeguata educazione sessuale o di quella che oggi è chiamata educazione alla differenza.

A ragione si parla sempre più insistentemente ed opportunamente di bigenitorialità, presenza di entrambi i genitori, o meglio ancora di cogenitorialità, sublimazione della bigenitorialità poiché non ci si riferisce ai due genitori nella loro singolarità ma ci si riferisce alla coppia genitoriale, che dovrebbe rimanere tale anche in caso di rottura della coppia coniugale; la genitorialità, comunque la si voglia intendere e in ogni caso basata sulla condivisione e corresponsabilità soprattutto educativa nei confronti dei figli, non deve essere rivendicata dai padri solo quando è negata in caso di separazione o divorzio (in cui frequentemente si verifica il cosiddetto mobbing genitoriale) ma cercata e costruita ogni giorno a cominciare dai momenti di convivialità. Convivialità utile anche per l’educazione alimentare, da non trascurare e da non delegare alla scuola o ad altri soggetti visto l’aumento dei disturbi del comportamento alimentare, che nascono proprio in seno alle relazioni familiari disfunzionali. In particolare le ragazze possono manifestare questi disturbi a causa di rapporti controversi con la figura paterna, sulla cui incidenza nei disordini alimentari solo nell’ultimo decennio la psicopatologia si è soffermata, in quanto in passato il rapporto col padre era sottovalutato in tal senso ed era considerato, nell’ambito di tutto il sistema familiare, un elemento del sottosistema genitoriale o di quello coniugale e non nella sua singolarità.

 

Margherita Marzario

Docente, laureata in giurisprudenza e perfezionata in legislazione minorile, cultrice di diritto di famiglia


[1]Quando si accudisce un bambino. L’esperienza di tre scrittori di Antonio Spadaro in “La Civiltà Cattolica” n. 3829 del 2 gennaio 2010 p. 21.

Dott.ssa Marzario Margherita

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