Recentemente il Tribunale di Verona, chiamato a dirimere un conflitto familiare, caratterizzato da comportamenti violenti e persecutori del marito nei confronti della moglie, ha disposto nei confronti del primo l’allontanamento dai luoghi abitualmente frequentati dal coniuge. Rilevante importanza ha assunto nella controversia il coinvolgimento degli operatori sociali e il contributo da essi fornito.
Prima di analizzare il provvedimento, tuttavia, sembra opportuno fornire un excursus circa la normativa vigente in materia e le pronunce sinora intervenute.
Il nostro Legislatore, nel 2001 (presumibilmente in considerazione delle frequenti notizie riguardanti vicende di maltrattamento in famiglia che negli ultimi anni hanno interessato le pagine dei quotidiani e le cronache televisive
[1]) ha emanato la Legge 5 aprile 2001, n. 154, rubricata “
Misure contro le violenze nelle relazioni familiari”
[2].
Tale disciplina ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nella tutela contro gli abusi in famiglia, sia in materia di diritto penale
[3], sia in materia di diritto civile, intervenendo nella modifica della disciplina sostanziale e processuale.
A far data dalla sua emanazione, infatti, in pendenza di un procedimento penale il Pubblico Ministero “in caso di necessità o urgenza” può richiedere al Giudice la misura dell’allontanamento del convivente dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.), o da altri luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (es. luogo di lavoro, domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti). Il Giudice può, in aggiunta, prescrivere che per il rientro nella casa sia necessaria l’acquisizione della sua autorizzazione, e può anche dettare determinate modalità di visita. Tra l’altro se a seguito del venir meno della convivenza, la persona offesa ed altre eventualmente rimaste nella abitazione restino senza mezzi di sostentamento, poiché la persona allontanata risultava concorrere al loro mantenimento, può essere ingiunto a quest’ultima la corresponsione di un assegno periodico.
Quanto alle previsioni di natura civilistica l’art. 2 della Legge in commento ha introdotto nel codice civile il Titolo IX-
bis “
Ordini di protezione contro gli abusi familiari”[4], onde poter apprestare una tutela anche a favore di chi in una relazione familiare intesa in senso lato si trovi ad essere vittima della condotta di altra persona suscettibile di causare un grave pregiudizio
[5] alla sua integrità fisica o morale ovvero alla sua libertà
[6]. Il rimedio proposto consiste nell’ordine (della durata massima di sei mesi, prorogabile su istanza di parte per gravi motivi e per il tempo strettamente necessario) rivolto dal Giudice a chi ha tenuto la condotta pregiudizievole, di cessare tale condotta, disponendo, ove necessario, i medesimi provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e/o dal “
luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro” (art. 342 bis c.c.). Anche a seguito della concessione di un ordine di protezione in sede civile, poi, può essere disposta la corresponsione di un assegno mensile
[7]. La misura da adottarsi può variare a seconda del caso, purché appaia adeguata rispetto agli effetti che si auspicano
[8].
Il procedimento summenzionato (disciplinato dall’art. 736-
bis c.p.c. introdotto dalla Legge in commento) inizia su impulso di parte, e competente a conoscere della causa è il Tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante
[9]. Esaurita l’attività istruttoria ritenuta necessaria (anche per mezzo della polizia tributaria per effettuare indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti), il Giudice provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo. In casi particolarmente urgenti, dopo l’assunzione di sommarie informazioni, il Giudice può adottare immediatamente l’ordine di protezione, fissando la successiva udienza di comparizione delle parti davanti a sé per confermare, modificare o revocare l’ordine di protezione già adottato
[10].
Orbene, le peculiarità di tale procedimento sono varie. Tra esse spiccano le seguenti.
Ai sensi dell’art. 5
(Pericolo determinato da altri familiari) della L. 154/2001, i soggetti a favore e contro i quali è possibile adottare un ordine di protezione non devono necessariamente essere legati tra loro da rapporto di coniugio o di convivenza, ma possono anche essere parenti o affini. L’ampliamento delle ipotesi di intervento è stata pensata dal nostro Legislatore in considerazione delle trasformazioni cui è andata incontro nel tempo la famiglia, con crescita esponenziale di convivenze more uxorio, nonché della possibilità, non infrequente, di convivenza tra soggetti non legati da vincolo sentimentale
[11].
Inoltre, la Legge in commento ha il pregio di aver introdotto nel nostro ordinamento giuridico un rimedio che consente alla vittima di prevaricazioni nell’ambito familiare di ottenere, in termini abbastanza rapidi, un provvedimento giudiziale volto a tutelare la propria integrità fisica e psichica, nonché la propria libertà. Prima della sua emanazione, infatti, si poteva soltanto sporgere una denuncia penale per i rati di ingiuria, molestie, violenza sessuale, percosse, lesioni o maltrattamenti e attendere l’esito del processo, ovvero presentare ricorso per separazione personale
[12], con il rischio, in caso di violenze psicologiche, di non riuscire ad effettuare un reale accertamento della loro consistenza
[13].
Oggi, invece, chi sia vittima di comportamenti violenti ed illeciti, qualora risulti coniugata con il maltrattatore, può davvero sentirsi libera di adire il Giudice civile penale e scegliere nell’ambito del settore civile se ricorrere direttamente ad una separazione o in alternativa chiedere un ordine di protezione volto ad allentare la tensione
[14].
Tra l’altro, può essere richiesto un intervento anche in casi di lesione dei diritti della personalità, quali ad esempio, la libertà di corrispondenza, la libertà di manifestazione del pensiero
[15].
Corre l’obbligo di evidenziare che, in ogni caso, la lesione dei beni appena elencati costituisce anche illecito civile ed è pertanto fonte di responsabilità extracontrattuale ai sensi degli articoli 2043 e 2059 c.c.
[16]. Il soggetto autore di una condotta violenta o comunque invasiva, infatti, può arrecare alla vittima un danno tanto biologico (lesioni personali), quanto morale ed esistenziale
[17], danni che meritano un ristoro anche economico ottenibile attraverso un giudizio civile ordinario
[18]. Un giudizio volto a far valere la responsabilità civile, infatti, non è ritenuto rimedio alternativo rispetto alla richiesta di un ordine di protezione
[19], ben potendo coesistere gli interventi dal momento che mirano a due risultati diversi, l’uno a far valere, anche prima e al di fuori di un ordine inibitorio, le ragioni risarcitorie della vittima di condotte illecite; l’altro a far cessare le condotte stesse e ridurre, per quanto possibile, i danni.
Nel valutare l’opportunità di concedere un ordine di protezione il Giudice dovrà verificare se il comportamento illecito è suscettibile di arrecare “
un grave pregiudizio alla integrità fisica e morale ovvero alla libertà” della persona offesa
“altrimenti non giustificandosi la grave misura dell’allontanamento dalla casa familiare, pure incidente su diritti di rilevanza costituzionale quali la libertà personale, la libertà di circolazione e la proprietà privata”[20]. In altre parole, tale pregiudizio deve integrare
“(…) un “vulnus” alla dignità dell’individuo di entità non comune, o per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, o per le modalità – forti – dell’offesa arrecata, o per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso”
[21], rilevando anche la reiterazione di varie azioni nel tempo
[22].
Dalla lettura di alcune pronunce dei Tribunali di merito
[23] e delle motivazioni che hanno spinto il Giudice ad adottare un ordine di protezione sembra emergere un tentativo, effettuato da un soggetto terzo, di garantire una serena convivenza familiare
[24] nei casi in cui i singoli componenti non riescano con i loro sforzi a mantenerla o riconquistarla.
Spesso, infatti, chi chiede un intervento giudiziale volto alla emissione di un ordine di protezione ha perso la speranza di vedere cessare le prevaricazioni e le turbative poste in essere da una persona con cui vive e vede pregiudicata la propria serenità quotidiana
[25].
A volte, però, a causa della particolare delicatezza della situazione concreta e dei molteplici interessi coinvolti, appare opportuno un supporto specialistico, fornito da psicologici, assistenti sociali, capaci di valutare in maniera professionale le ragioni delle tensioni, che possono anche palesare l’esistenza di un disagio più profondo e non risolvibile semplicemente con l’intervento di una misura giudiziale interdittiva
[26].
La legge 154/2001 ha recepito questa lacuna presente nel nostro ordinamento ed infatti consente al Giudice di servirsi dell’aiuto dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti
[27]. Tale intervento mirato consente, tra gli altri provvedimenti, anche la presa in carico del caso, la valutazione cioè a lungo termine del conflitto esistente per evidenziare le criticità e le possibilità di composizione. Auspicabile risulta tra l’altro la mediazione familiare in caso di esistenza di figli minori ai quali deve essere garantita una serena crescita nonostante le difficoltà cui va incontro la famiglia
[28].
Nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Verona, sono stati senz’altro presi in considerazione gli aspetti appena evidenziati. Il Giudice investito della causa, infatti, ha ritenuto sussistenti gli estremi del “grave pregiudizio all’integrità morale della moglie (e, inoltre, della figlia)” La condotta illecita è stata identificata nelle percosse e negli insulti indirizzati alla prima alla presenza di varie persone e a volte della stessa figlia minore, nonché nei numerosi tentativi di intromissione nella vita della ricorrente, messi in atto presso il suo luogo di lavoro, con lo scopo di gettare discredito sulla sua persona, in violazione della sua riservatezza, circostanze tutte che avevano portato la ricorrente a temere conseguenze negative anche nell’ambito della sua attività lavorativa.
L’accertamento di tali comportamenti illeciti, unitamente all’alto livello di conflittualità esistente tra i coniugi, ha indotto il Giudice a disporre, per la durata di tre mesi, l’allontanamento dai luoghi abitualmente frequentati dalla ricorrente
[29], anche per lavoro, oltre all’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole
[30].
A tali conclusioni il Giudice è giunto anche grazie al più che mai opportuno contributo fornito dai Servizi Sociali competenti, i quali sin dalla proposizione del ricorso ex art. 736-bis, c.p.c., sono stati coinvolti al fine di valutare il grado di conflittualità esistente e apprestare un sostegno alla genitorialità, a tutela della figlia minore della coppia. Dalle relazioni depositate, infatti, emergeva sia la natura “istintiva” ed “irascibile” del resistente (ritenuto, tra l’altro, “incapace di valutare le proprie ragioni”), sia che egli aveva tenuto nei confronti della moglie, degli stessi operatori sociali, sia dell’Autorità Giudiziaria, “una serie di comportamenti negativi”. Tra l’altro il sostegno fornito dai Servizi Sociali non si arresta al periodo interdittivo di tre mesi, in quanto il Giudice, con il medesimo provvedimento ha disposto che l’ULSS di Verona prenda in carico le parti per effettuare un intervento di sostegno alla genitorialità, mirato e di lunga durata, il quale si auspica possa consentire un chiarimento tra i coniugi e il recupero della vita coniugale.
[1] In effetti da qualche tempo tale fenomeno appare più frequente e a volte i dati diffusi allarmanti con epilogo drammatico. Ciò non significa necessariamente che siano aumentate le violenze in famiglia, ben potendo essere aumentata la percezione e la conoscenza che se ne ha, nonché il numero di denunce sporte. In dottrina c’è chi ha evidenziato come in passato “(…) tali tipi di violenza sussistevano con la medesima intensità, costanza e diffusione, ma la loro scoperta era resa difficile dal disagio nel rivelare fatti che dovevano restare privati e risolversi solo nell’ambito familiare. Tali illeciti rientrano in ciò che i criminologi hanno chiamato “numero oscuro”, ossia in quei reati assai diffusi, ma dei quali è assai difficile la scoperta a causa delle loro caratteristiche o dei tempi e modi di esecuzione” (F. Eramo, La L. 6 novembre 2003, n. 304: riforma delle nuove misure contro la violenza familiare, in Dir. famiglia, 2005, 2, pp. 699 e ss.).
[2] Tra i contributi dedicati alla Legge 154/2001 si vedano i seguenti: F. Eramo, La Legge n. 154 del 2001: nuove misure contro la violenza familiare, in Dir. Famiglia, 2004, 1, pp. 230 e ss.; P. Di Martino, Violenze familiari: la tutela civile e penale nella legge 154/2001: profili giuridici e criminologici nell’applicazione giurisprudenziale, Napoli, 2004; A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005; Violenze e maltrattamenti in famiglia, a cura di E. U. Savona, S. Caneppele, Trento, 2006; F.M. Zanasi, Violenza in famiglia e stalking: dalle indagini difensive agli ordini di protezione, Milano, 2006; S. Allegrezza, La nuova misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, in Familia, 2003, 1, pp. 107 e ss.; F. Gianfilippi, Sugli ordini di protezione contro la violenza nelle relazioni familiari, in Giur. merito, 2004, 3, pp. 461 e ss.; L. Ciaroni, Le forme di tutela contro la violenza domestica, in Giur. merito, 2006, f. 9, pp. 1840 e ss.; C. Cascone, Quegli abusi fra le mura domestiche, l’ordine di protezione riporta la pace, in D & G, 2006, 3, pp. 28 e ss..
[3] Quando si pensa ai reati contro la famiglia si guarda sicuramente al reato di maltrattamenti previsto e punito dall’art. 572 c.p., rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, che recita: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni”. Il maltrattamento è un reato necessariamente abituale,consiste in una serie di condotte, anche eterogenee tra loro (omissive o commissive), che addirittura considerate singolarmente potrebbero non essere punibili penalmente (umiliazioni, infedeltà) ovvero essere punibili a querela della persona offesa. La loro reiterazione nel tempo consente di farle rientrare nella sfera penale (P. Cenci, Ancora in tema di elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia, con particolare riferimento ai coniugi, agli ex coniugi ed ai partners di un rapporto di fatto, in Dir. famiglia, 1998, 1, pp. 154 e ss.; Cass. Pen., Sez. III, 16 maggio 2007, n. 22850, in Guida al Diritto, 2007, n. 34, p. 66). Tuttavia, possono essere integrate anche altre condotte dall’ingiuria alle molestie, dalle percosse alle lesioni personali, per sfociare in maltrattamento, violenza sessuale e in alcuni casi in omicidio. In materia si vedano Silvani, Commento alle misure contro la violenza nelle relazioni familiari, L. Pen., 2001, pp. 677 e ss.; Pistorelli, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari: allontanamento dalla casa familiare; pagamento di un assegno, in Riondato (a cura di), Diritto Penale, in Zatti (diretto da), Trattato di diritto di famiglia, IV, Milano, 2002, pp. 87 e ss.; A. Pannain, La condotta nel delitto di maltrattamenti, Napoli, 1964; Reati contro la famiglia e minori, a cura di F.S. Fortuna, Milano, 2006; I reati contro la famiglia, Trattato diretto da A. Cadoppi, S. Canestrai, M. Papa, Torino, 2006.
[4] Per quanto concerne il significato da attribuirsi al termine abuso nell’ambito della disciplina in esame si veda A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, p. 135, il quale ha evidenziato quanto segue: “Nella particolare figura dell’art. 342-bis c.c. l’uso del termine indica due elementi. Il primo consiste nell’illiceità del comportamento. L’ordinamento vieta l’uso della violenza, la prevaricazione, che determinano la lesione dell’integrità fisica e morale dei membri della famiglia. Anche se questi comportamenti non integrino delle ipotesi di reato, si tratta di fatti illeciti che possono costituire fonti di responsabilità civile e che vengono sanzionati nel sistema degli ordini di protezione. In secondo luogo, la parola indica che l’illecito si compie nel quadro di una relazione familiare, incidendo negativamente su di essa. Il fatto violento, quale accadimento storico esplica i suoi effetti sulla prosecuzione del rapporto, perché ne pregiudica il normale sviluppo. L’intervento giudiziale in tema di ordini di protezione mira alla tutela del soggetto debole, rimuovendo le occasioni della possibile ripetizione del fatto. Sotto questo aspetto, gli ordini di protezione svolgono una funzione cautelare, perché mirano alla prevenzione di nuovi atti di violenza”.
[5] In dottrina (si veda A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 141 e ss.) è stato evidenziato come il pregiudizio rilevante ai fini della concessione di un ordine di protezione debba risultare grave e determinato non necessitando la irreparabilità e la attualità. La gravità del pregiudizio deve essere misurata in relazione alla lesione cagionata e “all’essenzialità delle situazioni giuridiche soggettive colpite”. Quanto alla determinatezza si ritiene che essa equivalga alla individuazione esatta e alla descrizione puntuale della condotta illecita.
[6] Non risulta essere presupposto per la concessione di un ordine di protezione la convivenza tra la parte offesa e il destinatario dell’ordine, infatti le condotte illecite potrebbero essere tenute anche in occasione di incontri casuali tra persone che si sono già allontanate. Si veda al riguardo il Decreto 15 luglio 2002, Trib. di Firenze (in Foro It., 2003, I, pp. 948 e ss.), che ha evidenziato come lo sia al contrario presupposto indefettibile “il protrarsi di comportamenti violenti in ambito familiare”.
[7] Si veda al riguardo A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 75 e ss., il quale ha evidenziato come “La ratio di questa previsione consiste nella protezione del convivente debole contro gli abusi familiari. La prospettiva di rottura del legame può apparire un ostacolo insormontabile nel caso di difficoltà economiche. Tutto ciò potrebbe indurre ad astenersi dal ricorso agli ordini di protezione, costringendo le vittime ad accettare passivamente le violenze. La soluzione legislativa rappresenta un possibile superamento di questo problema”.
[8] Si veda al riguardo A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 186 e ss..
[9] L’istante non può richiedere un ordine di protezione se dopo la proposizione di un ricorso per separazione personale, si è svolta l’udienza di comparizione dei coniugi davanti al Presidente, in quanto spetterà al Giudice già investito adottare provvedimenti ritenuti urgenti e necessari (art. 8).
[10] In dottrina vi è stata una querelle circa la natura da attribuire a tale procedimento. Le qualificazioni suggerite sono state sostanzialmente le seguenti: 1) procedimento di natura cautelare; 2) procedimento contenzioso non cautelare; 3) procedimento di volontaria giurisdizione. “Questa è la qualificazione che maggiormente persuade. Ci sembra, infatti, che il Legislatore abbia inteso conferire al giudice civile una generale funzione di cura dell’interesse sociale alla tranquillità della famiglia, attribuendogli il potere di pronunciare provvedimenti sommari – semplificati – esecutivi anche destinati a limitare la possibilità di godere di diritti reali o personali di godimento nella titolarità dell’autore dell’abuso ovvero destinati a restringere la libertà di circolazione del destinatario, sebbene per un lasso temporale delimitato” (così E. D’Alessandro, Gli ordini civili di protezione contro gli abusi familiari: profili processuali, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 2007, 1, pp. 225 e ss.).
[11] Si noti come a parere della dottrina ( A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, p. 92), il concetto di convivenza sia molto ampio: “Per convivenza non deve intendersi la mera coabitazione, ma la comunione di vita, che non riguarda esclusivamente il rapporto di unione tra un uomo ed una donna, ma può stabilirsi anche tra persone dello stesso sesso. La ratio della norma impone di accordare la tutela anche alle coppie omosessuali, che rientrano senz’altro nella categoria dei conviventi”.
[12] Si veda la riguardo il contributo di F. Eramo, La Legge n. 154 del 2001: nuove misure contro la violenza familiare, in Dir. Famiglia, 2004, 1, pp. 230 e ss..
[13] Per utili approfondimenti si vedano i seguenti contributi: I generi della violenza: tipologie di violenza contro le donne e minori e politiche di contrasto, a cura di G. Del Giudice, G. Barbara, C. Adami, Milano, 2001; D. Chindemi – V. Cardile, Molestie morali: tutela giuridica e rimedi terapeutici, in Resp. civ. e prev., 2007, i, pp. 97 e ss..
[14] In dottrina il rimedio civilistico previsto dagli artt. 342-bis e ter c.c. è stato saluto con estremo favore. Si veda al riguardo M. C. Capurso, Gli ordini di protezione in materia di famiglia: aspetti civilistici e modifiche legislative (l. 6 novembre 2003, n. 304). Un caso di imperfetta “tecnica legislativa”, in Dir. famiglia, 2004, 2, pp. 446 e ss., che affrontando il tema della possibilità di scelta tra vari procedimenti ha evidenziato come l’ordine di protezione in commento possa essere preferibile in quanto evita il “coinvolgimento “coatto” della vittima in un processo penale non voluto, invasivo in quanto affrontato molto spesso in una situazione di fragilità psicologica, fonte di isolamento sociale e familiare (…) e di ulteriore conflittualità durante l’intero e lungo arco temporale necessario per la sua definizione”.
[15] Per utili approfondimenti si veda A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 143 e ss.. L’Autore evidenzia come a volte la prevaricazione posta in essere da un familiare nei confronti dell’altro possa consistere nella sottrazione della corrispondenza, nell’intercettazione di comunicazioni telefoniche, nonché la limitazione della libertà di manifestare il proprio pensiero
[16] In passato si tendeva ad escludere la possibilità di avanzare pretese risarcitorie nei confronti di un membro della famiglia, dal momento che la famiglia assumeva un ruolo centrale nell’ambito del sistema sociale, ruolo al quale conseguiva una sorta di immunità e di sacrificio dei singoli a favore dell’unità familiare. Si veda al riguardo A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 272 e ss..
[17] La corte di Cassazione si è recentemente pronunciata in maniera esaustiva circa la portata del danno esistenziale in ambito familiare. Con la Sentenza 10.05.2005, n. 9801 (in F.D., n. 4/2005, pp. 365 e ss.), infatti, è stato evidenziato come: “il rispetto della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente del nucleo della famiglia, così come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare”.
[18] In dottrina è stato notato che in casi di violenza endo- familiare “(i) nulla impedisce al coniuge di non agire ex lege Aquilia; (ii) ove, invece, il partner decida per un risarcimento, sarà difficile – come intuibile – mantenere in piedi l’unione; (iii) nella maggior parte dei casi, dunque, è giocoforza addivenire ad una domanda di separazione. È appena il caso di sottolineare come, peraltro, la scelta della vittima di rimanere accanto al suo persecutore (…) comporterà, per il danneggiato, le conseguenze derivanti dall’art. 1227 c.c., di cui il giudice terrà conto nella pronuncia finale ai fini dell’an e, soprattutto, del quantum respondeatur”. (F.M. Zanasi, Violenza in famiglia e stalking: dalle indagini difensive agli ordini di protezione, Milano, 2006, p. 575).
[19] Si vedano al riguardo le riflessioni di A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, p. 277.
[20] Così si è pronunciato il Trib. di Trani, Sez. di Barletta con decreto 18.06.2005 (www.ordineavvocatitrani.it/pubblica/articolo.php?articolo=431). Riguardo alla tematica del necessario bilanciamento tra libertà e diritti delle parti, soprattutto quando l’ordine di protezione viene dettato in assenza della commissione di un reato si vedano le riflessioni di A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 85 e ss.. L’Autore ha evidenziato che: “(…) il venir meno della correlazione tra fatto – reato e provvedimenti sulla libertà personale potrebbe presentare il rischio di misure cautelari fondate su presupposti atipici. Mentre il reato consiste in un fatto determinato, da sussumere in azioni tipiche previste dalla legge penale, la «condotta pregiudizievole» di cui agli artt. 342-bis e ter c.c. può essere ravvisata in una serie aperta di comportamenti. La principale difficoltà consiste nella precisa determinazione del confine tra liceità ed illiceità della condotta della persona nella vita familiare. Sussistono delle ipotesi in cui si è chiaramente in presenza dell’abuso (…) ed è evidente il danno arrecato alla loro integrità psicofisica. In altre situazioni, invece, sussiste un maggior grado di incertezza, che può essere rimosso solo ex post, con il provvedimento del giudice che emette l’ordine di protezione o rigetta l’istanza. È necessario stabilire se questa differenza rispetto all’illecito penale è tale da escludere la legittimità della compressione della libertà individuale. (…) la prima fonte della limitazione della libertà personale del responsabile degli abusi è costituita dalla necessità di difendere dei soggetti deboli della famiglia. Il reato non è l’unico fatto in grado di incidere negativamente sullo svolgimento della loro personalità. Possono sussistere dei comportamenti egualmente dannosi che non diano luogo ad illeciti penali, anche a causa delle gravi carenze che presenta la disciplina penalistica sulla famiglia. Non sussistono dunque ostacoli di ordine costituzionale alla possibilità di ordinare l’allontanamento dalla residenza familiare e di vietare l’accesso a determinati luoghi. Questi provvedimenti sono frutto del necessario bilanciamento tra valori coinvolti, anche in relazione alla durata degli ordini”.
[21] Si veda Trib. di Bari, ordinanza 18 luglio 2002, in Famiglia e diritto, 2002, pp. 623 e ss.. In dottrina c’è chi ha tentato di delineare alcune situazioni che possono integrare condotte illecite (A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 135 e ss.). Così, a titolo esemplificativo, si ritiene che possano giustificare l’emissione di un ordine di protezione condotte poste in essere in violazione dei doveri personali dei coniugi (artt. 143 e ss. c.c., ovvero un comportamento contrario all’obbligo di fedeltà, oppure all’obbligo di assistenza morale o familiare o alla coabitazione o il venir meno della collaborazione nell’interesse della famiglia) o tra conviventi (in questo caso pur non sussistendo obblighi personali reciproci equiparabili a quelli esistenti tra coniugi, “i doveri che vengono tutelati mediante gli ordini di protezione hanno invece fondamento nel principio generale del neminem laedere. La convivenza può essere occasione per la commissione di abusi che colpiscano gli aspetti privati dello svolgimento della personalità. Il dovere di astensione da comportamenti dannosi acquista una propria specificità nei rapporti di famiglia, che si traduce in una adeguata risposta alla sua violazione, nella prospettiva rimediale”). Ancora,
[22] Si vedano al riguardo Trib. di Trani, decreto 12 ottobre 2001, in Famiglia e diritto, 2002, pp. 395 e ss., con nota di Petitti e Trib. di Bari, decreto 10 aprile 2004, reperibile in Dir. e Giust., 2005, f. 5, pp. 29 e ss., con nota di Guerra.
[23] Per utili approfondimenti in merito alle pronunce sinora pubblicate si veda il contributo di F.M. Zanasi, Violenza in famiglia e stalking: dalle indagini difensive agli ordini di protezione, Milano, 2006, pp. 473 e ss..
[24] La stessa Corte di Cassazione (Cass. Sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208, in Nuova giur. civ. comm., 2006, pp. 237 e ss.) è intervenuta in materia rilevando che l’ordine di protezione non è finalizzato a tutelare interessi individuali, quanto piuttosto l’interesse sociale alla tranquillità familiare. Tali riflessioni sono confortate dalla dottrina. Si veda al riguardo C. Cascone, Quegli abusi fra le mura domestiche, l’ordine di protezione riporta la pace, in D & G, 2006, 3, pp. 28 e ss.: “(…) il giudice dovrà, necessariamente, entrare all’interno della famiglia, varcare la soglia delle mura domestiche per scorgerne le effettive dinamiche relazionali. L’ordinamento giuridico ha sempre apprestato alla vita familiare, tradizionalmente identificata come la “vita privata”, tutela e protezione da ogni ingerenza esterna, senza preoccuparsi più di tanto, invece, di tutelarla altresì da ogni “ingerenza” interna, né di proteggere ogni singolo componente nei confronti dell’altro. (…) il concetto di famiglia va reinterpretato (…) La famiglia non è più, dunque, un luogo chiuso, dove tutto era possibile e, tante volte, rimaneva impunito, ma apre le sue porte al mondo esterno, per meglio tutelare tutti, indistintamente, i suoi membri. All’interno di questa piccola comunità, non possono, pertanto, non valere le stesse norme di comportamento e le stesse regole di condotta che valgono all’esterno di essa, nei confronti di tutti i consociati; ne consegue che “il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia, così come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare (Cassazione 980105, in D&G, 22/2005, p. 14). È il riconoscimento di quello che potremmo, un po’ enfaticamente, definire “diritto alla tranquillità familiare”, a vivere serenamente. In effetti, non è un nuovo diritto o autonomo, quello di cui si discorre, trattandosi, più che altro, di un aspetto connaturato all’essenza stessa del concetto di famiglia, nei termini sopra ricostruiti. I comportamenti tenuti all’interno delle mura domestiche, pertanto, come pure le modalità di realizzazione delle relazioni affettive, debbono attenersi al rispetto della dignità e libertà degli altri componenti familiari. Ove si discostino in maniera significativa da tale parametro, dette condotte non possono più sfuggire alla rigorosa applicazione delle regole di diritto, e quindi al controllo giudiziario”.
[25] Si pensi che il Tribunale di Messina è stato investito del compito di risolvere una situazione conflittuale esistente in una famiglia tra i genitori ed una figlia il cui comportamento violento generava quotidianamente discussioni suscettibili, secondo il Giudice, di arrecare un grave pregiudizio alla integrità morale non solo dei genitori, ma anche del fratello minore. Il ricorrente, prima di proporre istanza giudiziale per ottenere un ordine di protezione, aveva messo a disposizione della figlia una abitazione di proprietà, garantendole il sostentamento e il mantenimento agli studi, per allentare la tensione, ma a nulla erano valsi i suoi propositi. Il Tribunale di Messina si pronunciava con decreto disponendo l’allontanamento della resistente dalla casa familiare, ma al contempo assegnava alla stessa un contributo economico da corrispondersi da parte dei genitori, affinché il provvedimento non apparisse una punizione, ma tenesse conto anche delle sue esigenze (Decreto 24 settembre 2005 del Tribunale di Messina, in D&G, 2006, n. 3, pp. 28 e ss.).
[26] Spesso chi adotta comportamenti violenti in ambito familiare non appare all’esterno quale è e in alcuni casi presenta anche disturbi della personalità o disturbi psichici, non sempre riconoscibili ictu oculi e non eliminabili solo in via giudiziale. Al riguardo si vedano gli spunti riflessivi offerti da D. Chindemi – V. Cardile, Molestie morali: tutela giuridica e rimedi terapeutici, in Resp. civ. e prev., 2007, i, pp. 97 e ss.: “Una tematica a cui non si è prestata sufficiente attenzione, ma che riveste, sotto il profilo della incidenza sociale e nella cerchia degli affetti, particolare rilievo per le implicazioni non solo nei confronti del malato psichico, ove sia riconosciuto tale, ma anche dei familiari è costituita dalla violenza in famiglia che può assumere diversi ed a volte anche impensati ed insoliti aspetti di violenza nella coppia: dalle umiliazioni, al ricatto economico, all’abuso sessuale, al plagio, fino alle percosse ed all’omicidio”. “La forma di violenza (…) più diffusa all’interno del rapporto di coppia è quella psicologica a seguito della quale il partner può subire gravi compromissioni di natura psicologica. Nella semplice lite, anche se si può alzare la voce rompere i piatti e persino azzuffarsi, esiste quanto meno una relazione di parità, una simmetria tra i due partner. Quello che permette di distinguere la violenza coniugale da un semplice litigio di coppia non sono le botte o le parole offensive, bensì l’asimmetria nella relazione. In un conflitto di coppia, l’identità di ognuno è preservata, l’altro viene rispettato in quanto persona, mentre questo non avviene quando lo scopo è dominare e annichilire l’altro. Anche se la violenza assume sovente le connotazioni di entrambe le forme (fisica e psicologica), quella psicologica è la più dannosa in quanto incide sull’equilibrio psico-fisico della persona ed è più difficilmente assorbibile rispetto a quella fisica. La violenza psicologica è di difficile individuazione perché fa leva più che su singole parole o atti su un comportamento finalizzato a tale risultato che dall’esterno per apparire tale deve essere esaminato con molta attenzione nei suoi risvolti perché altrimenti potrebbe essere scambiato con atteggiamenti che possono assumere una valenza non significativa al riguardo. Diverse sono le modalità con cui può estrinsecarsi la violenza psicologica che può assumere le diverse forme quali gli insulti, il controllo, l’isolamento, la gelosia patologica, la molestia assillante, le critiche avvilenti, le umiliazioni, le intimidazioni, l’indifferenza alle richieste affettive, le minacce”.
[27] Tale intervento è stato salutato con favore dalla dottrina. Si veda in particolare A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 204 e ss., il quale ha evidenziato che “L’intervento del giudice non può garantire la presenza costante d figure di sostegno, in grado di contribuire al processo di recupero delle relazioni. Dopo l’accertamento dell’illiceità della condotta del responsabile degli abusi e l’adozione di misure opportune per evitarne la reiterazione, è necessario tendere al superamento delle situazioni di fatto che costituiscono l’humus della violenza domestica. Ciò può realizzarsi innanzitutto grazie all’ausilio dei sevizi sociali territoriali, enti di assistenza istituzionalmente preposti alla protezione della famiglia, che costituisce un compito della Repubblica”.
[28] Si veda al riguardo C. Cascone, Quegli abusi fra le mura domestiche, l’ordine di protezione riporta la pace, in D&G, 2006, 3, pp. 28 e ss. il quale evidenziando la natura temporanea dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare prosegue dicendo che: “La norma, allora, è stata “piegata” ed “adattata” al caso concreto: l’intervento giudiziario, attraverso il suo ordine di allontanamento, prova a “gestire” e “contenere” una situazione di crisi familiare (sedimentatasi ed aggravatasi nel tempo, frutto magari di carenze educative ed affettive), senza la pretesa di risolverla in un colpo solo, ma con la sola finalità di indicare un possibile sbocco, che sta alle parti, ed a loro soltanto, recepire e seguire. Particolarmente significativa, in questa prospettiva, la “chiamata in causa”, da parte del giudice, dei servizi sociali, perché forniscano idoneo supporto terapeutico, individuando eventuali percorsi di mediazione familiare. Si tratta di uno strumento previsto dalla Legge 154/01, ed è questo forse un aspetto non adeguatamente valorizzato dal legislatore, che avrebbe potuto osare qualcosa in più, prevedendo, eventualmente, la possibilità di “prescrivere” a tutti i componenti familiari di sottoporsi obbligatoriamente a programmi di mediazione e recupero, pur nella consapevolezza della inutilità di tali prescrizioni in assenza di volontà collaborativi delle parti interessate: sarebbe stato, però, importante stabilire il principio”.
[29] La funzione di tale divieto è stata individuata dalla dottrina (A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 201 e ss.) “nella diretta protezione della sua incolumità, non solo da atti di violenza fisica, ma anche dal turbamento psicologico arrecato dal senso di pericolo provocato dalla presenza dell’aggressore”.
[30] Nel caso di specie, la ricorrente si era allontanata spontaneamente dalla casa familiare, conseguentemente le condotte lesive dei suoi interessi non erano tali da giustificare l’allontanamento del coniuge dalla abitazione. Con riferimento al contenuto dell’ordine di cessazione della condotta, in dottrina (A. G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, Milano, 2005, pp. 189 e ss.) è stato notato che se il pregiudizio riguardi l’integrità morale “l’ordine di protezione (…) avrà per oggetto il comportamento ingiurioso o denigratorio tenuto dal responsabile e dovrà essere particolarmente preciso nella sua descrizione, al fine di evitare il rischio dell’indeterminatezza, che risulta più alto quando non sia coinvolta la sfera dell’integrità fisica”.
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