1. La rappresentanza: inquadramento della fattispecie – 2.1 L’istituto della rappresentanza nell’ordinamento italiano – 2.2 Le fonti della rappresentanza – 2.3 I casi di esclusione della rappresentanza – 2.4 L’oggetto della rappresentanza – 2.5 La rappresentanza organica – 3. La procura. Approfondimenti problematici – 4. Le forme della rappresentanza: la rappresentanza diretta – 5. Il nuncio – 6. L’altruità dell’interesse. Teorie a confronto – 7. Le patologie della rappresentanza
1. La rappresentanza: inquadramento storico della fattispecie
L’istituto della rappresentanza svolge una funzione di massima rilevanza nell’ordinamento giuridico. Esso garantisce che le persone, sia fisiche che giuridiche, possano, nel compimento delle proprie attività materiali, affidarsi ad un sostituto.
Essa trova pertanto la sua ragione d’essere ed il suo fondamento storico in esigenze di carattere pratico che si legano ad un sistema di distribuzione dei beni e dei servizi fondato sulla divisione del lavoro
[1].
Questo spiega perché l’istituto abbia accresciuto la propria importanza nel corso del tempo, divenendo essenziale l’esigenza, nei rapporti commerciali, che soggetti estranei rispetto al diretto interessato potessero svolgere, per conto di questo, le attività che non potevano essere dallo stesso direttamente controllate. Una necessità che oggi, nell’epoca in cui lo sviluppo dell’impresa commerciale e dei rapporti da questa intrattenuti con altri soggetti giuridici riveste massima importanza, è divenuta imprescindibile
[2].
A dimostrazione di ciò vi è il fatto che dell’istituto, a livello internazionale, ha ricevuto inoltre un’ulteriore conferma nella sua essenziale importanza a seguito dell’approvazione della Convenzione di Ginevra del 1983, vertente sulla rappresentanza nei contratti di vendita internazionale di merci
[3].
Volendo effettuare, preliminarmente, una breve ricostruzione storica dell’istituto può dirsi che da un’analisi delle fonti romane risulti evidente la mancanza di un termine per indicare la figura della rappresentanza e del rappresentante, e ciò ad ulteriore conferma di quanto appena specificato, ovvero della circostanza che l’istituto ha visto accrescere la propria rilevanza e fortuna solamente con lo sviluppo intenso dei rapporti commerciali su scala mondiale.
L’istituto dunque, pur affondando le proprie radici nel diritto romano (benché appunto gli studiosi sostengano che le fonti romane classiche non conoscessero l’istituto della rappresentanza diretta
[4] cosi come lo si conosce oggi), aveva in realtà una connotazione di tipo prettamente familiare, essendo chiamato a soddisfare (in una fase economica caratterizzata dall’assoluta prevalenza dell’economia agricola) le esigenze ristrette di un numero di soggetti decisamente esiguo
[5].
Nel diritto romano classico infatti il contratto non può produrre effetti se non tra le parti contraenti. Per questo il negozio stipulato in favore di un terzo è affetto da nullità assoluta. Sia nei confronti delle parti, poiché, come specifica la dottrina del tempo, queste non hanno interesse all’adempimento della prestazione promessa nel contratto “ceterum ut alii detur nihil interest mea”, sia nei confronti del terzo in quanto egli non è partecipe della contrattazione negoziale.
Ciò nonostante, pur non riconoscendosi appunto una forma generale di rappresentanza, sono rinvenibili varie eccezioni nelle fonti alla regola
alteri stipulari nemo potest. In particolare se ne individuano due: anzitutto quella ravvisabile nell’operato dei
tutores e dei
curatores degli incapaci. Si segnala in particolare l’esempio del
cognitor che sostituisce nel processo il soggetto ultrasessantenne, ovvero l’impossibilitato per malattia
[6].
La seconda ipotesi è quella che attiene alla figura del filius in protestate o del servo che sostituiscono il paterfamilias nello svolgimento dell’attività negoziale. In questo caso siamo sicuramente in presenza di una figura molto simile all’odierna rappresentanza. Ma con una rilevante differenza rispetto a questa: infatti in questi ultimi due casi si ravvisa una sorta di immedesimazione con la figura del dominus, facendo sì che gli stessi, altrimenti privi della facoltà di agire e della relativa capacità patrimoniale, esprimano la volontà del paterfamilias, sono propriamente associabili alla figura del nuncius.
Inoltre (ed è questa una seconda, rilevante, differenza) non possono essere da questi validamente assunte quelle obbligazioni che vincolino il
paterfamilias nei confronti dei terzi (ovvero attribuisca a questo degli
incomoda). L’attività negoziale è pertanto estremamente limitata: riducendosi alla costituzione di vantaggi (
commoda) per il
dominus[7].
Sul finire dell’età repubblicana, con l’evolversi della società e l’intensificarsi degli scambi commerciali, la necessità di farsi sostituire nel compimento dell’attività giuridica diviene invece un’esigenza imprescindibile. Nasce proprio in questo periodo la figura del procurator che non viene scelto più solamente tra i familiari ma che può anche essere estraneo rispetto a questi. Egli, inoltre, non è investito dell’incarico rappresentativo in forza di un rapporto di potestà, come avveniva precedentemente, ma di un vero e proprio mandato.
In una terza, ed ultima, fase, la giurisprudenza pretoria creerà le cosiddette actiones adiecticia qualitatis. Si supera cioè anche il divieto di assumere incomoda che vincolino il rappresentato all’affare e, riconosciuto il diritto d’azione, il terzo che abbia contrattato con il rappresentante che agiscono sul patrimonio di questo, è investito della facoltà di chiamare in giudizio il titolare del diritto, purchè ricorrano determinati presupposti che tali azioni hanno appunto il compito di individuare.
2.1 L‘istituto della rappresentanza nell’ordinamento italiano
La costruzione, infine, di un concetto di rappresentanza in senso moderno, avente caratteri di autonomia e contorni e limiti ben definiti rispetto a forme simili ma non identiche di cooperazione (e come tale utilizzabile in ogni circostanza) è il frutto di una ricostruzione pandettistica di matrice tedesca, alla quale si sono uniformate tutte le codificazioni moderne.
Appunto per quanto riguarda la situazione italiana, nel codice civile del 1865, benché questo in realtà non contenesse una disciplina esplicita dell’istituto (in ossequio al codice francese, sul quale modello era costruito)
[8], è dato ravvisare la presenza di alcuni primi, importanti accenni alla suddivisione tra le forme di rappresentanza diretta ed indiretta che verranno poi tracciate definitivamente nell’attuale impianto normativo codicistica.
Il codice civile attuale invece, pur non contenendo una definizione dell’istituto, ne detta le linee generali nel capo VI del libro IV, negli articoli che vanno dal 1387 al 1400, e ne indica il meccanismo tipico di operatività nell’articolo 1388, ove si stabilisce che “il contratto concluso in nome e nell’interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato”
[9].
Ma il termine “rappresentanza” viene menzionato anche in una nutrita serie di disposizioni del codice civile, connettendosi ai relativi istituti
[10]. Rendendo il fenomeno estremamente complesso ed articolato, e giustificando la ragione del nascere, in merito ad esso, di numerose teorie dottrinarie che hanno tentato di ricostruirne e specificarne i diversi aspetti problematici, alla luce dei principi generali dell’ordinamento, nonché degli istituti cui, volta per volta, la rappresentanza stessa è stata correlata.
2.2 Le fonti della rappresentanza
Dall’articolo 1387 del codice civile si desume anzitutto che le fonti della rappresentanza possano essere due: la legge oppure la volontà del rappresentato.
Per la prima non sembrano sorgere problemi specifici: la legge interviene creando l’ufficio al quale può essere collegata la legittimazione rappresentativa, della quale viene determinato il contenuto ed il modo di esplicazione, oppure con funzione integrativa ai sensi dell’articolo 1374 del codice civile.
Tra la prima ipotesi, la rappresentanza legale, e la seconda, la rappresentanza volontaria, sussistono punti di contatto e divergenze. Punti di contatto perché è comune alle due ipotesi la sostituzione di un soggetto al titolare degli interessi per la conclusione di contratti destinati a produrre effetti per quest’ultimo; ma anche divergenze, perché il rappresentante legale, a differenza del rappresentante cui sono conferiti i poteri dell’interessato, opera in base ad un potere che gli compete come proprio, in relazione ad un ufficio di diritto privato, e di conseguenza non spende il nome altrui, essendo sufficiente che agisca come rappresentante dell’incapace
[11].
Si parla dunque di “rappresentanza legale”, proprio per indicare il fatto che essa non trova origine nella volontà dei soggetti ma nella etero determinazione dell’ordinamento
[12].
Ad esempio i genitori vedono attribuirsi, ex lege, la legittimazione direttamente in ragione della loro qualità e del loro che svolgono per l’ordinamento nella cura del contesto familiare in cui sono nati e stanno crescendo i loro figli. Ma può anche accadere che sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria ad attribuire questa potestà, nominando, ad esempio nei casi di incapacità, un soggetto che faccia le veci e dunque rappresenti l’incapace.
Maggiori, e, per quanto di pertinenza di questa ricerca: più interessanti, problemi sorgono invece con riguardo all’attribuzione volontaria
[13]. Dalla lettura degli articoli 1392 e 1396 del codice civile pare potersi desumere che il conferimento della legittimazione rappresentativa sia da identificare con la procura, intesa come negozio unilaterale e recettizio
[14].
Potendosi pertanto configurarla anche nell’ipotesi dell’articolo 1704 del codice civile (mandato con rappresentanza) o di altre figure contrattuali (contratto di lavoro subordinato o società) nelle quali si possono innestare particolari rapporti di rappresentanza.
Ciò nonostante la sussistenza di diverse opinioni dottrinarie
[15] che, invece, ritengono che con il termine di “procura” si avrebbe riguardo ad un’entità concettualmente non definibile, riferendosi questa piuttosto alla situazione del rappresentante munito del relativo potere (cioè la legittimazione) e la fonte di tale potere, qualunque essa sia: mandato, preposizione istruttoria, ecc.
Infine, vi sono anche altri autori
[16] che sostengono l’opportunità di individuare una duplice fonte: la procura o il contratto (o, meglio, una particolare clausola contrattuale che può far parte del contenuto di certi contratti) .
2.3 I casi di esclusione della rappresentanza
Si deve ricordare a questo proposito che il meccanismo giuridico della rappresentanza è considerato dalla dottrina come incompatibile con alcuni atti, definiti “personalissimi”
[17], in riferimento ai quali l’ordinamento, in ragione dei rilevanti interessi in gioco, consente l’azione solamente ai rispettivi titolari.
L’esempio più frequentemente riportato è quello del matrimonio (art. 107 cc), dove peraltro è dato rinvenire una diversa ipotesi, quella del matrimonio per procura, questa legittima, dove in effetti non si assiste alla presenza di una figura di rappresentanza quando piuttosto di mera enunciazione (la cui differenza rispetto al negozio della rappresentanza viene esplicata nella parte conclusiva di questo paragrafo).
Altri esempi sono costituiti dall’ambito testamentario e, con qualche eccezione, dalla donazione, dove è ammessa la rappresentanza entro limiti più ristretti rispetto a quelli normalmente previsti (artt. 777 e 778 cc).
2.4 L‘oggetto della rappresentanza
Il discorso si collega dunque al più ampio dibattito sull’oggetto della rappresentanza. Ovvero, appurato che questa possa trovare applicazione in tutti i negozi (salvo, ovviamente, per le ragioni ora esposte, quelli che si sono esclusi) la dottrina discute se in realtà essa possa avere ad oggetto anche atti giuridici diversi dai negozi.
Vengono, al riguardo, fornite principalmente due opinioni. Da una parte stanno coloro
[18] i quali escludono questa circostanza, argomentando sulla base della rilevanza della volontà del rappresentante, la quale presupporrebbe che l’atto compiuto in nome del rappresentato sia una manifestazione di volontà, cioè, appunto, un negozio.
Dall’altra invece l’opinione prevalentemente seguita dalla dottrina, avente natura estensiva, che ritiene che la rappresentanza possa avere ad oggetto qualsiasi atto giuridico lecito perché ciò che effettivamente rileva è che gli effetti siano imputabili a persona diversa dall’autore dell’atto. Il riscontro a tale tesi si rinverrebbe nel comune ricorso alla rappresentanza anche al di fuori del compimento di negozi: si ammette infatti che,nell’esercizio del suo potere, il rappresentante possa fare comunicazioni, diffide, pagamenti, atti processali, ecc.
[19]
2.5 La rappresentanza organica
Altro tipo di rappresentanza, che trova diretta e specifica applicazione soprattutto nell’ambito delle persone giuridiche, è quella definita come rappresentanza organica. In sostanza, con essa si indica il potere rappresentativo che compete agli organi esterni di un ente giuridico.
L’organo, va ricordato, è in generale l’ufficio competente ad esercitare le funzioni di un ente giuridico, ma il potere rappresentativo non spetta automaticamente a tutti gli organi, bensì solamente a quegli organi definiti esterni o rappresentativi, e cioè quegli organi che, secondo la disciplina dell’ente, hanno il potere di compiere atti giuridici in nome dell’ente (come ad esempio è il caso dell’amministratore di una società).
Viceversa gli organi interni svolgono funzioni che riguardano i rapporti interni dell’ente stesso, e che sono i più vari, a seconda anche delle tipologie operative dell’ente medesimo.
La peculiarità della rappresentanza organica è data dunque dal fatto che l’organo rappresentativo si immedesima nella struttura stessa dell’ente. Questo significa che l’organo che stipula un contratto non si sta, in realtà, sostituendo all’ente, ma, in quel momento, è lente stesso.
Il che, ovviamente, produce una serie di rilevanti conseguenze soprattutto dal punto di vista della responsabilità extracontrattuale (di cui risponde l’ente se l’organo ha compiuto un illecito nell’esercizio delle sue funzioni).
Per quanto poi attiene al negozio la sua imputazione all’ente è da considerarsi comunque imputazione degli effetti: la dichiarazione di volontà è pur sempre quella della persona fisica portatrice della qualità organica. Ciò vuol dire che, ai fini dell’impegno dell’ente, occorre accertare se la persona fisica ha la qualifica vantata e, poi, se l’organo ha la necessaria competenza rappresentativa.
Ed è proprio la distinzione tra la persona fisica esercente la funzione organica e l’ente (in ragione dello schema parte formale – parte sostanziale) che consente di spiegare e giustificare l’applicazione della disciplina della rappresentanza. Nello specifico, la normale possibilità che il momento deliberativo sia di competenza di organi diversi da quello rappresentativo pare fare intendere il fatto che possa trovare applicazione anche la normativa attinente ai vizi della volontà e agli stati soggettivi
[20].
3. La procura. Approfondimenti problematici
Analizzate le principali forme di rappresentanza ed anche gli aspetti problematici relativi all’inquadramento di questa all’interno dell’ordinamento, è bene soffermarsi brevemente sul concetto di procura
[21]. Tecnicamente questa può essere definita come il negozio unilaterale con il quale un soggetto conferisce ad un altro il potere di rappresentarlo. Essa dunque si inquadra nel contesto dei negozi autorizzativi, qualificandosi precisamente come l’autorizzazione ad agire in nome dell’autorizzante.
La unilateralità della procura è determinata dal fatto che, al fine del suo perfezionamento, non è necessario il consenso del destinatario. La ragione di ciò è rinvenibile nel fatto che in realtà con la procura si attribuisce semplicemente una posizione di potere in capo al procuratore senza comportare né per il rappresentato né per il rappresentante la perdita di alcun diritto o l’assunzione di alcun obbligo
[22].
La seconda prerogativa della procura è quella di essere un negozio recettizio, nel senso che la sua efficacia sarebbe subordinata, secondo alcuni
[23], alla ricezione da parte del rappresentante, mentre secondo altri sarebbe necessaria la ricezione da parte del terzo.
Va tuttavia detto che esistono alcune voci in dottrina che negano la rilevanza del carattere ricettizio della procura, argomentando in base alla circostanza che la conoscenza non sarebbe in realtà funzionale all’effetto, né risponderebbe ad alcuna esigenza di tutela del destinatario. La non comunicazione dell’atto potrebbe infatti, secondo le circostanze, indicare che il soggetto non ha ancora deciso in ordine alla concessione del potere rappresentativo. Se tuttavia la volontà è stata sicuramente manifestata (come nel caso di procura rilasciata per mezzo di atto notarile) allora l’esercizio del potere da parte del rappresentante appare legittimo senza che si renda necessaria una specifica comunicazione fatta dal rappresentato allo stesso rappresentante o al terzo.
Infine, la procura richiede la stessa forma che la legge richiede per l’atto che il procuratore è autorizzato a compiere, secondo quanto previsto dall’articolo 1392 del codice civile. Dunque, ad esempio, la procura a vendere un immobile esigerà la forma scritta, a pena di nullità, essendo questa la forma che la legge ritiene necessaria per la compravendita immobiliare
[24].
Questo significa anche che se la legge non richiede la forma scritta, ma bastevole quella orale per il negozio che il rappresentante deve concludere, allora la procura potrà anche assumere forma orale. Tale procura orale presenterà semmai l’unico inconveniente per il rappresentante di dover dimostrare il fondamento dei propri poteri al terzo con cui addivenga a contrattazione.
Quest’ultimo infatti può chiedere al rappresentante di giustificare i propri poteri, e cioè dimostrare l’esistenza e il contenuto della sua posizione rappresentativa. Lo dimostra l’articolo 1393, in virtù del quale, se il rappresentante ha conferito procura scritta, il terzo potrà chiederne una copia firmata al rappresentante.
Se dunque la procura è la principale forma di conferimento della rappresentanza volontaria, l’altra non può che essere un contratto. Se ne prevedono di diverse tipologie: il mandato, l’agenzia, il contratto di lavoro subordinato, ed anche il contratto di società. Tutte queste tipologie hanno in comune il fatto di creare tra le parti un rapporto di gestione: sia dal punto di vista del suo effetto naturale, sia, eventualmente, in forza di una clausola a tal fine predisposta dalle parti. Ovviamente in questo caso, essendo la rappresentanza discendente dalla fonte contrattuale, alla disciplina specifica dovrà aversi riferimento
[25].
4.1 Le forme della rappresentanza: la rappresentanza diretta ed indiretta
Tutto ciò premesso, chiariti i concetti fondamentali che l’istituto della rappresentanza comporta, in particolare riferimento alla procura, è possibile entrare nel merito delle due principali forme di rappresentanza che si possono individuare nel nostro ordinamento.
Anzitutto quella diretta, quando il rappresentante conclude contratti con il terzo in nome e per conto del rappresentato, il
dominus[26].
Viceversa, si definisce rappresentanza indiretta (o anche rappresentanza di interessi, secondo la terminologia in uso presso la dottrina tedesca) quella in cui il rappresentante stipula in nome e per conto proprio, senza fare alcun riferimento, nei suoi rapporti con il terzo, all’incarico ricevuto. Successivamente dovrà trasferire gli effetti del negozio della sfera giuridica del rappresentato, perché, in prima battuta, sarà questo ad essere considerato parte del vincolo contrattuale concluso.
In altre parole, mentre nella rappresentanza diretta il rappresentato parte sostanziale del contratto del contratto assumendo la titolarità del rapporto, in quella indiretta invece egli non diviene, di regola, parte del contratto.
Questa differenza, che sul piano teorico è senz’altro netta, nella disciplina legislativa tende ad attenuarsi, poiché anche il contratto stipulato dal rappresentante indiretto può esplicare taluni effetti sulla sfera giuridica del rappresentato. Ed ovviamente, come già specificato, tali effetti non si producono immediatamente in capo a questo, ma dovranno comunque essere riversati nella sua sfera giuridica (si pensi al caso esemplificativo del mandatario che, avendo acquistato un immobile per conto del mandante è tenuto, in virtù di quanto dispone il secondo comma dell’articolo 1706 del codice civile, a trasferirlo a questo).
Pare evidente dunque come si rinvenga una nozione di rappresentanza molto ampia, intesa cioè come generale legittimazione ad agire per conto altrui. Da ciò peraltro è possibile ricavare il fondamento che pone due teorie interpretative a confronto, attinenti l’alternativa tra una tesi sostanziale ed una tesi formale
[27], ovvero tra la tesi che ravvisa la rappresentanza nell’agire per altri e quella che, invece, la ravvisa nell’esercizio del potere di sostituzione giuridica o di spendita del nome altrui, considerando meno rilevante il momento della cura dell’interesse del rappresentato.
Queste due diverse idee della rappresentanza, che secondo altri autori
[28] possono considerarsi entrambe valide, rispecchierebbero in realtà uno stesso aspetto che l’ordinamento considera fondamentale: quello cioè per cui l’agire in nome proprio preclude al terzo contraente di esercitare la sua pretesa contrattuale nei diretti confronti dell’interessato. Affinché dunque l’interessato divenga parte sostanziale del rapporto contrattuale occorre che il rappresentante agisca in suo nome, il che ci permette di concludere che la spendita del nome costituisce sicuramente il carattere caratterizzante e distintivo della rappresentanza diretta.
L’altro problema che bisogna evidenziare è quello per cui si rende necessario chiedersi se l’agire del rappresentato condizioni la legittimazione del rappresentante diretto, se cioè l’effetto proprio dell’esercizio del potere rappresentativo presupponga l’esplicazione di un rapporto di gestione.
In tal senso la soluzione offerta dal legislatore è quello di dare rilevanza al conflitto di interessi con il rappresentato. Tale conflitto non priva di legittimazione il rappresentante ma rende annullabile l’atto, purchè il conflitto fosse conosciuto o riconoscibile da parte del terzo. Dunque l’atto è efficace anche se compiuto in conflitto di interessi con il rappresentato, salva ovviamente la possibilità della sua rimozione mediante l’esercizio dell’azione di annullamento.
Tornando alla disciplina generale della rappresentanza va detto che il codice civile non fornisce una definizione del fenomeno rappresentativo, limitandosi a disciplinarne gli effetti all’articolo 1388 del codice civile. Esso recita che “il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato”.
Dunque, il primo rilievo che può compiersi è che al rappresentante è conferita non una legittimazione escludente quella originaria del rappresentato, bensì una legittimazione di secondo grado, che può assorbire l’originaria posizione di competenza del soggetto titolare degli interessi dedotti.
Ma dalla disposizione emergono anche altre due considerazioni di rilievo, quelle per cui cioè i presupposti necessari di validità ed efficacia della rappresentanza sono costituiti dalla spendita del nome del rappresentato e dalla cura dell’interesse di lui.
5. Il nuncio
Sempre da un punto di vista della disamina generale sull’istituto, è bene distinguere la figura del rappresentante da quella del
nuncius[29]. Il rappresentante cioè si distinguerebbe dal nuncio perché quest’ultimo non emette una propria dichiarazione di volontà ma si limita a riferire ad una parte la volontà dell’altra. Il nuncio dunque non è parte materiale del contratto ma semplicemente un tramite attraverso il quale l’atto di volontà della parte viene portato a conoscenza dell’altra. Resta configurato a livello di “strumento di comunicazione”, totalmente estraneo al negozio.
L’atto del nuncio può allora giustificarsi alla stregua di un atto comunicatorio, avente ad oggetto la volontà altrui. Questo atto, come tale, si sottrae alla disciplina del negozio e si prospetta piuttosto in riferimento alla disciplina per falsa comunicazione, riconducibile peraltro alla medesima responsabilità extracontrattuale per lesione dell’altrui libertà contrattuale, del falso rappresentante
[30].
Non solo, rispetto ai terzi il soggetto che si serve di un nuncio sopporta sulla propria sfera giuridica il rischio della divergenza tra il contenuto della volontà affidata a quello e il contenuto della volontà comunicata. A conferma di ciò sembrerebbe porsi la regola dettata dall’articolo 1433 del codice civile in tema di errore nella trasmissione della dichiarazione di volontà ed anche nel generale principio di autoresponsabilità
6. L‘alterità dell’interesse. Teorie a confronto
La dottrina ha discusso a lungo in merito alla ricerca dell’essenza dei limiti del requisito costituito dal perseguimento dell’interesse altrui da parte del rappresentante, nello svolgimento del potere conferitogli.
Un primo rilievo ha verificato come la disciplina dedicata alla rappresentanza sia stata sostanzialmente costituita attorno ad un’ipotesi tipica, quella cioè in cui il soggetto (il rappresentante) agisce nel nome e soprattutto nell’interesse di un altro soggetto (il rappresentato), nei limiti delle facoltà conferitegli: producendo, in questo caso, il negozio concluso effetti diretti nella sfera giuridica di questo.
Ma il problema interpretativo è sorto sulla base di una diversa ed ulteriore constatazione: se la rappresentanza è caratterizzata dal prodursi direttamente in capo al rappresentato degli effetti di un contratto stipulato da altri, la fattispecie prevista dall’articolo 1388 del codice civile non è certamente l’unica idonea a produrre quell’effetto, e dunque non è l’unica fattispecie rappresentativa.
Così, se un soggetto, senza esservi obbligato, assuma scientemente la gestione di un affare di altri, che a loro volta non si oppongano, ed inizia questa gestione in modo utile, allora l’interessato si troverà nell’obbligo di adempiere alle obbligazioni che il gestore aveva assunte in suo nome (secondo quanto dispone espressamente l’articolo 2031 del codice civile). In questo caso dunque il gestore ha agito in nome e per conto altrui, ma non gli è stato conferito alcun potere, e ciò nonostante si produce l’efficacia diretta.
Allo stesso modo, se il mandatario acquista cose mobili per conto del mandante ma in nome proprio, il mandante ha uno specifico diritto a rivendicarle, secondo quanto dispone l’articolo 1706 del codice civile. In questo caso quindi il mandatario ha agito sì nell’interesse del mandante, ma non nel nome di questo, e tuttavia, anche in questa particolare circostanza, si è prodotta l’efficacia diretta.
Ancora, pur volendo circoscrivere l’ambito dell’indagine esclusivamente alle ipotesi tipiche, e cioè nel settore che viene delimitato dagli articoli del codice civile che vanno dal 1388 al 1399, è possibile assistere a equiparazioni ed equivalenze che rendono problematica una configurazione omogenea del requisito dell’alterità dell’interesse e giustificano dunque l’acceso dibattito dottrinario che, a questo proposito, è venuto a svilupparsi nel corso degli anni
[31].
A seconda della valenza data a questo elemento, quello dell’interesse, si è pervenuti a due diverse definizioni degli effetti della rappresentanza. Da una parte cioè la teoria per cui tutto il fenomeno rappresentativo viene costruito intorno al presupposto della cura dell’interesse del rappresentato, che prende il nome di teoria sostanziale, ponendosi in evidenza il concetto di cooperazione.
Dall’altra parte la teoria che invece svaluta la rilevanza del presupposto della cura dell’interesse del rappresentato, dando invece la prevalenza a quello della spendita del nome altrui
[32], che prende il nome di teoria formale e ritiene che si sia in presenza di un vero e proprio fenomeno di sostituzione.
Dunque i primi
[33], i fautori della teoria sostanziale, ritengono che la rappresentanza risponda alla necessità che sia ampliata la sfera di azione del soggetto che, conferendo l’incarico rappresentativo, si assicura la collaborazione di un terzo per la cura dei suoi affari. In quest’ottica la rappresentanza assume l’essenza di un fenomeno prettamente collaborativi, ed il rappresentante conclude affari in luogo del preponente con effetti che ricadono però direttamente in capo a questo.
Dunque, proprio perché l’istituto rappresentativo risponde all’esigenza di curare l’interesse altrui, il potere di rappresentanza non può prescindere ed esercitarsi se non in funzione della cura di questo. Tale cura è la fonte del potere rappresentativo che non può, di conseguenza, rendersi autonomo dal sottostante rapporto di gestione.
In buona sostanza, per i sostenitori della teoria sostanziale
[34] il rapporto di gestione
[35] assume valenza esterna, andando a regolare non soltanto i rapporti tra rappresentante e rappresentato, ma anche la stessa legittimazione rappresentativa che viene meno ove, in concreto, si perseguano interessi in contrasto con quelli del
dominus.
Tale teoria inoltre troverebbe conferma in una serie di dati normativi. Anzitutto, proprio nel testo dell’articolo 1338 del codice civile, nel quale si prevede che il rappresentante deve agire, oltre che in nome, anche nell’interesse del dominus dell’affare. Il rispetto di entrambi questi presupposti è quindi necessario affinché si producano effetti diretti nella sfera giuridica del soggetto che non è stato parte del regolamento di interessi.
In secondo luogo nell’articolo 1394 del codice civile, che statuisce l’annullabilità del contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato. Ebbene, proprio la sanzione dell’annullabilità, per i fautori della teoria sostanziale
[36], corrisponderebbe al vizio di legittimazione rappresentativa.
Infatti, qualora il rappresentante si discosti, nello svolgimento dell’incarico, alle istruzioni ricevute dal rappresentato, il legislatore dichiara l’atto invalido: il vizio dell’annullabilità viene interpretato in base ai principi del diritto amministrativo. Si ha cioè un’ipotesi di sviamento di potere funzionale della causa, che però non porta alla totale estinzione di quel potere, ma semplicemente all’annullabilità relativa
[37].
Ancora, un terzo elemento di conferma della teoria sostanziale si ravviserebbe nell’istituto della gestione di affari altrui. In questo infatti rileverebbe in modo evidente il presupposto della cura dell’altrui interesse.
Escluso dunque che l’istituto non sia riconducibile al fenomeno rappresentativo, come sostenuto da chi
[38] in questo ravvisa la mancanza del necessario presupposto dell’attribuzione preventiva del potere da parte del rappresentato, si dice che la fattispecie si caratterizza per la mancanza di ogni e qualsiasi rapporto tra il gestore ed il gerito.
Attraverso un richiamo al diritto romano (dove si era coniato il termine di obbligazioni quasi ex contractu per definire i rapporti che discendevano da questo intervento spontaneo, chiarificando che non vi fosse alcun rapporto giuridico vero e proprio e che gli obblighi di continuare la gestione intrapresa e di tenere indenne il gestore da quelli assunti, nascevano solamente da un atto materiale di intrapresa cura dell’interesse altrui) si specifica che la legittimazione rappresentativa deriverebbe esclusivamente dall’atto di cura dell’interesse altrui. Pertanto ove non si agisca nel perseguimento di questo scopo si avrebbe un’ingerenza illecita nell’altrui sfera giuridica. L’intervento del gestore, in quanto spinto dal fine della cura dell’interesse altrui, provocherebbe automaticamente gli effetti di una gestione rappresentativa.
A sua volta, il requisito dell’
utilitas sottolineerebbe la necessaria presenza e l’imprescindibilità del requisito della concreta cura dell’interesse altrui. Solo sulla base di questo presupposto dunque si produrrebbero gli effetti di una valida gestione rappresentativa
[39].
Sul versante opposto rispetto alla teoria sostanziale si pongono i fautori della teoria formale, che individuano nel rapporto rappresentativo un fenomeno di vera e propria sostituzione, sussistendo piena indipendenza tra procura e rapporto interno di gestione. Solamente la procura è dunque, in questa configurazione teorica, destinata ad avere effetti nei confronti dei terzi, mentre il rapporto di gestione, sia questo costituito dal mandato o da qualsivoglia altro negozio giuridico, ha valenza meramente interna.
Appare immediatamente evidente come la teoria formale privilegi dunque l’elemento della
contemplatio domini in luogo del dato della cura dell’interesse del rappresentato: questo cioè, a conti fatti, può anche non essere raggiunto, senza che per questo venga meno il potere rappresentativo
[40].
La rappresentanza dunque non presuppone la necessaria presenza di un sottostante rapporto di gestione. È invece sufficiente alla produzione degli effetti il conferimento del potere rappresentativo (la procura) e la spendita del nome del rappresentato (contemplatio domini).
Si realizza pertanto un completo distacco tra la procura ed il negozio gestorio sottostante: l’una, la procura, ha efficacia esterna di legittimazione rappresentativa e conferisce il potere di spendere il nome altrui nei limiti e con le forme stabilite. L’altro, il negozio di gestione, volto a regolare in via esclusiva i rapporti tra rappresentato e rappresentante, è fonte di obbligazioni esclusivamente tra le parti del rapporto principale.
Questa indipendenza tra i due negozi comporta l’ulteriore conseguenza della non necessarietà della loro coesistenza, potendosi avere casi in cui al rapporto gestorio non si accompagni il potere di spendere il nome altrui (l’esempio tipico è costituito dal mandato senza rappresentanza) oppure, al contrario, casi nei quali all’autorizzazione ad agire in nome di una terza persona, non si giustappone il relativo obbligo (ed è il caso specifico della procura senza rappresentanza)
[41].
Poiché allora il rapporto gestorio, che assumeva una valenza centrale nella precedente teorizzazione, qui non è più considerato come fonte del potere rappresentativo, tutti gli effetti di questo discendono necessariamente dal negozio unilaterale della procura, che è contemplata indipendentemente dal sottostante rapporto obbligatorio
[42]. Ciò significa anche che il soggetto è legittimato ad impegnare la sfera giuridica altrui nei limiti e nelle forme stabilite nell’atto di procura
[43].
Un primo fondamento di questa ricostruzione sarebbe da rinvenirsi nei principi dell’affidamento e della buona fede dei terzi, i quali, non possono essere a conoscenza degli accordi intercorsi tra rappresentato e rappresentante, se questi non vengono portati a loro conoscenza. Infatti, chi viene in contatto con il rappresentante, è legittimato a fare affidamento sull’estensione dei poteri rappresentativi che risultano dall’atto di procura, senza essere tenuto a dover indagare quale sia, in concreto, l’esatta volontà del
dominus dell’affare e quale sia il suo interesse nella vicenda in oggetto. Nei confronti dei terzi invece, per quanto attiene ai poteri del rappresentante, diviene “decisivo”
[44] il tenore della procura (soprattutto se essa risulti da atto scritto). Il che significa che se per intese che siano intercorse tra quello ed il rappresentato questi poteri siano più ampi o più ristretti, comunque non potranno essere opposti al terzo.
La conseguenza è che il rapporto di gestione viene ricondotto nei suoi originari confini a regolare solamente i rapporti interni tra rappresentato e rappresentante. Da esso nasce, esclusivamente, l’obbligo per il rappresentante di attivarsi nell’esplicazione dell’attività rappresentativa.
Inoltre, se non c’è alla base del rapporto rappresentativo alcun contratto di mandato, il rappresentante sarà libero di intervenire nei rapporti con i terzi. Il potere di agire e di impegnare il dominus nei confronti dei terzi è quindi conferito dalla procura. Il rappresentante è legittimato ad agire nei limiti da questo segnati, a prescindere da quali e quanti vincoli derivino dal rapporti interno di gestione. Questi ultimi, per rispondere alle esigenze di tutela dei terzi, non sono ad essi opponibili, ma legittimano solamente azioni risarcitorie di inadempimento tra rappresentato e rappresentante. Inoltre, ad ulteriore conseguenza sta il fatto che in virtù di questa completa indipendenza tra la procura ed il mandato, il potere rappresentativo non viene meno ove sia viziato il negozio di gestione.
Altra conferma di questa ricostruzione deriverebbe dall’istituto della rappresentanza indiretta. Mentre in quella diretta la spendita del nome del rappresentato, come s’è visto, fa sì che nella stessa persona (il rappresentato) si riuniscano sia la parte in senso formale che quella in senso sostanziale, viceversa nel caso di mandato senza rappresentanza si assiste ad una scissione soggettiva tra parte in senso formale e parte sostanziale del rapporto. Quando il mandatario non ha la legittimazione ad impegnare direttamente la sfera giuridica del dominus gli effetti degli atti compiuti ricadono esclusivamente su di lui, nonostante che egli abbia agito per peseguire l’altrui interesse e nonostante il fatto che i terzi potessero essere a conoscenza di questa circostanza.
Dunque i sostenitori della teoria formale, rileggendo, in combinato disposto, gli articoli 1705 e 1706 del codice civile, ritengono che il potere di rivendica accordato al mandante dall’articolo 1706 si spiegherebbe non tanto in un’ottica di trapasso diretto dei beni dal terzo al mandante, quanto piuttosto in termini di doppio trasferimento. L’azione prevista da queste due disposizioni non avrebbe altro fondamento che la titolarità del bene mobile non registrato, ovvero, del diritto di credito acquistato dal mandatario nell’esplicazione del potere rappresentativo. Tuttavia la titolarità di tali diritti non viene acquisita in base ad un trasferimento diretto dal terzo al mandante. Al mandato infatti non può essere riconosciuta un’efficacia ultra partes ed unico soggetto del rapporto contrattuale è il mandatario.
Per spiegare dunque l’azionabilità del diritto di rivendica, esclusa appunto l’efficacia traslativa del mandato, si parla di “doppio trasferimento automatico”
[45]: dal terzo al mandatario e dal mandatario al mandante.
In questo doppio trasferimento di proprietà, di cui il secondo, dal mandatario al mandante, interviene automaticamente al moment del compimento dell’atto gestorio, si avrebbe, comunque, una duplice vicenda negoziale, e si verrebbe a vanificare la tesi della rilevanza esterna del rapporto gestorio di mandato.
Il contratto di mandato infatti avrebbe esclusivamente efficacia inter partes e non influenzerebbe all’esterno, non spostando gli effetti reali derivanti dall’attività gestoria direttamente in capo al mandante.
Tuttavia, tra i sostenitori della teoria formale, non vi è conformità di vedute sulla fonte dell’effetto transitivo automatico dal mandatario al mandante. Infatti, secondo alcuni, l’effetto del trapasso automatico deriverebbe direttamente dalla legge e lo scopo dichiarato sarebbe quello di accordare una particolare tutela al mandante. Sarebbe dunque un effetto eccezionalmente previsto ex lege.
Secondo altri autori invece gli effetti che richiamano gli articoli 1705 e 1706 sono già programmati a livello di contratto di mandato, essendosi, in tal senso, formata la volontà delle parti negoziali all’atto dell’accordo negoziale
[46].
Osservando la giurisprudenza sulla questione del doppio trasferimento, una sentenza che può apparire significativa è quella delle Sezioni Unite della Cassazione del 26 gennaio 1994, n. 728. Il giudice, investito del problema circa l’applicabilità dell’obbligo di denuncia
ex articolo 30 della legge 01 giugno 1939, n. 1089, in caso di mandato senza rappresentanza, accedendo appunto alla ricostruzione del doppio trasferimento di proprietà, giunse alla conclusione che questo obbligo di denuncia graverebbe sia in capo all’originario alienante, sia nei confronti del mandatario, anch’egli parte della vicenda successoria relativa
[47].
Ciò detto, c’è un altro profilo da rilevare nell’ambito di questa teorizzazione Caduto cioè il collegamento tra procura e negozio gestorio e decretata l’indipendenza del potere rappresentativo dalla curta dell’interesse altrui, ritengono che l’essenza del fenomeno giuridico sia costituita dall’alienità della posizione giuridica azionata. Nella rappresentanza il soggetto agisce dunque esplicando il potere di autonomia negoziale del terzo al quale si sostituisce. La facoltà di disposizione è espressione della capacità di agire e di questa facoltà il titolare si spoglia a favore del rappresentato, che la esercita in nome e per conto di lui. Diventa dunque necessario e sufficiente a realizzare la sostituzione, il fatto che un soggetto operi nel mondo giuridico nello svolgimento dell’autonomia negoziale di un terzo
[48].
Non è più indispensabile che si curi l’interesse del
dominus, trovandosi conferma di ciò nel superiore principio dell’autonomia negoziale che può rivolgersi al perseguimento di qualsiasi scopo, purchè non contrastante con l’ordinamento giuridico. Il rappresentato infatti potrà senz’altro conferire la legittimazione ad agire per il perseguimento di scopi estranei alla sua persona e propri dello stesso rappresentante, ovvero di un terzo
[49].
7. Le patologie della rappresentanza
Avendo svolto una disamina generale sulla rappresentanza e sulle principali teorizzazioni che riguardano l’istituto, è bene fare brevi cenni alle categorie giuridiche in cui questo si divide, al fine di introdurre le forme patologiche che lo riguardano, con la precisazione che le stesse saranno oggetto di più approfondita trattazione nel corso dei successivi capitoli della trattazione.
Va detto anzitutto che, benché i meccanismi sostitutivi della rappresentanza consentano di attivare l’accelerazione dei traffici giuridici, in linea con le moderne esigenze di velocizzazione degli scambi e della spersonalizzazione dei rapporti giuridici, tuttavia non sempre il ricorso all’istituto della rappresentanza consente effettivamente un ordinato svolgimento dei rapporti tra le parti interessate.
Può accadere che, per ragioni che la stessa disciplina codicistica enumera e disciplina, prevedendone i relativi rimedi, le parti (ed in particolare il rappresentante, violino l’accordo contrattuale, oppure ne esorbitino i limiti, finendo ovviamente per snaturare la funzione stessa dell’istituto, e determinando appunto l’insorgere di forme di patologia di questo.
Può avvenire che un soggetto agisca quale rappresentante pur senza averne i poter;. Può essere che egli avesse i poteri, ma non li abbia più al momento della conclusione del negozio rappresentativo; può essere che non li abbia mai avuti, sia perché gli sono stati conferiti invalidamente, sia perché non gli sono stati conferiti, sia perché non potevano essergli conferiti, dato che il soggetto per cui agisce ancora non esiste. Può essere poi che chi agisce come rappresentante ne abbia i poteri, ma non per concludere quel negozio rappresentativo
[50].
Come si è sottolineato, in queste particolari circostanze, “la fisiologia cede il passo alla patologia ogni qualvolta la sostituzione alimenta comportamenti pregiudizievoli o potenzialmente pregiudizievoli per gli interessati”
[51].
La disciplina delle patologie della rappresentanza che il nostro codice civile disegna assieme ad alcune leggi speciali si è prestata nel corso del tempo ad alcune interpretazioni divergenti, dovute talora a lievi imperfezioni nella sua strutturazione, che tuttavia hanno determinato talora il rischio di perdere l’originale logica ispiratrice di questa
[52].
È bene dunque avere presente che il ricorso alla categoria del vizio di legittimazione, che costituirebbe un comune denominatore di tutte le patologie della rappresentanza, facendo riferimento alla posizione di criticità
[53]in cui si trova il rappresentante stesso, non ha natura onnicomprensiva.
Questa categoria andrebbe quindi utilizzata entro limiti ragionevoli ed a scopo prevalentemente descrittivo, non comportando una scelta automatica di tutela a favore di uno o l’altro dei protagonisti della vicenda, anche perché al vizio si riconducono conseguenze ben diverse a seconda dell’uno o dell’altro caso
[54].
Questa valenza descrittiva, sottolineata dalla dottrina
[55], avrebbe appunto il pregio di permettere una generalizzazione di tutte le ipotesi di difetto di titolarità o di poteri, senza riconoscere a tale uso una capacità di attrazione scientifica più pregnante.
Tra le teorie esposte a questo proposito, quelle negoziali, spiegano la produzione degli effetti del negozio rappresentativo principalmente in base al potere di rappresentanza
[56]. All’interno di queste poi vi sono due diversi orientamenti che accentuano, rispettivamente, il ruolo del
dominus e quello del rappresentante. Mentre quest’ultima rappresentazione è quella più risalente nel tempo, si fonda sul conferimento della procura e sancirebbe una sorta di distacco della volontà del rappresentante rispetto a quella del rappresentato, la prima invece predilige sottolineare che l’attività del rappresentante costituisce esercizio di un diritto altrui piuttosto che di un ufficio proprio.
Dunque secondo quest’ultima impostazione la legittimazione del rappresentante si deriva dal rappresentato e si fonda proprio sulla volontà di questo, dovendosi distinguere nettamente il conferimento del potere di rappresentanza del rapporto interno di gestione o di cooperazione (come avviene nel mandato, nel contratto di lavoro, nelle società). Nel caso in cui questa legittimazione venga a mancare allora si innesca un meccanismo patologico che porta, normalmente all’applicazione dell’istituto dell’abuso di potere.
Appunto la manifestazione più significativa della rilevanza di questo concetto si rileverebbe nel conflitto d’interessi, che viene disciplinato nel codice civile dagli articoli 1394 e 1395
[57].
Tuttavia il ricorso alla categoria dell’abuso di potere di rappresentanza è stato, da altri autori, ritenuto scorretto, sia per quanto riguarda l’utilizzo del termine “potere”, sia per quanto attiene il termine “abuso”
[58]. In particolare riferimento a questo si è infatti osservato che si tratta di un termine mutuato dal linguaggio del diritto amministrativo con riguardo a situazioni riconducibili essenzialmente ad un’ipotesi di potere, ovvero situazioni non “libere sull’
an necessitate”
[59], mentre invece la situazione del rappresentante sarebbe da riportarsi alla diversa figura dell’”
agere nocesse”.
Con tale posizione si recupera anzitutto una contestazione più lontana nel tempo, che criticava alla radice la presunta autonomia del rapporto di gestione rispetto al rapporto tra terzo e rappresentante. Ma in realtà, si nota, la posizione ora enunciata sembra possa affiancarsi piuttosto a quella richiamata solo in senso negativo. In particolare la posizione più recente si sofferma sull’impossibilità di qualificare in termini di potere (con riguardo al alto esterno) e di dovere (con riguardo al lato interno) la posizione del rappresentante.
Ciò con l’ulteriore conseguenza di escludere che il rappresentante occupi un ruolo negoziale ed escludendo che quindi la rappresentanza possa configurarsi come attività di cooperazione, perché, dovendosi dare conto soprattutto dell’attività del rappresentante, sarebbe inimmaginabile descrivere questa in termini di cooperazione (evocando questa idea la volontarietà comportamentale, che però è estranea alla posizione, assimilabile a quella del debitore, di soggetto obbligato funzionalmente al diretto soddisfacimento del credito, e quindi del creditore, che in questo caso è il rappresentato).
Ad ogni modo l’abuso di potere di rappresentanza non è l’unica forma patologica del rapporto che si s’instaura tra rappresentante e rappresentato. Può altresì accadere che la legittimazione manchi del tutto, quando cioè il soggetto che agisce in rappresentanza non sia stato investito del potere di autonomia che pretende di esercitare nell’altrui nome ed interesse, o lo eserciti oltre i limiti, o, ancora, contro i fini per cui gli era stato attribuito quel potere
[60].
In queste ultime ipotesi allora l’esercizio della rappresentanza, sempre sotto il profilo patologico di questa, potrebbe risultare ossequiosa delle istruzioni ricevute dal punto di vista formale, ma, in concreto, determinarsi in un esercizio totalmente irrispettoso dell’interesse del rappresentato.
Anche in questo caso la teoria negoziale ha tentato di ricostruire il fenomeno, configurandolo nel senso che si determinerebbe il sopravvenire di un vizio di legittimazione, che si ripercuoterebbe a sua volta sulla determinazione causale del volere, sicché l’annullabilità sarebbe strettamente correlata alla possibilità di ricostruire un nesso causale tra il sussistere del conflitto e il concreto regolamento negoziale (che sarebbe quindi svantaggioso o comunque meno vantaggioso del possibile per il rappresentato).
Da questa impostazione discenderebbe, in ulteriore analisi, la possibilità per il rappresentante di provare il contrario attraverso il reclamo di un controllo più specifico della sua volontà
[61]. Da qui la conclusione per cui “la situazione obiettiva di conflitto di interessi è da sola causa di annullabilità del contratto: basta, per ottenere l’annullamento, la prova dell’esistenza della situazione di conflitto in cui il rappresentante versava al momento della conclusione del contratto; non occorre l’ulteriore prova che il rappresentante ne abbia tratto effettivo profitto, realizzando il proprio e sacrificando l’interesse del rappresentato”
[62].
In conclusione dunque, il concetto di abuso di potere di rappresentanza, quale forma patologica di questo istituto, non solo appare circoscritto a determinate ipotesi, ma sembra anche che difficilmente lo si possa estendere in chiave sistematica, perché estremamente pieno di significati (attribuitagli appunto dalle teorie negoziali di cui s’è dato conto) che complicano il concetto di rappresentanza senza potere.
Oltre a ciò c’è la considerazione oggettiva per cui l’agire del rappresentante può produrre effetti giuridici nella sfera del rappresentato nella misura in cui sia a ciò legittimato, anche se con un atto meramente successivo quale la ratifica. Questa constatazione oggettiva è però forzata nel momento in cui si conclude, da parte di certa dottrina
[63], che il fenomeno della rappresentanza volontaria sarebbe caratterizzato dalla necessità di dichiarazione di consenso preventiva o successiva da parte dell’interessato.
Dichiarazione che, sempre secondo questa dottrina, non potrebbe essere ridotta alla procura ed alla ratifica, avendo riguardo la dichiarazione di consenso all’agire nell’interesse del rappresentato e non anche nella semplice spendita del nome
[64].
Un secondo modo di studiare la patologia dei rapporti in ambito di rappresentanza è data da quella teoria che sostituisce al fatto legittimante costituito dalla ratifica e dalla procura quello dell’autorizzazione generica alla rappresentanza.
Il primo ed indubbio vantaggio di questo impianto teorico è quello di sfuggire alla critica che si poneva nei confronti di quello precedentemente esposto. Ovvero dal fatto che al rappresentante fosse sostanzialmente consentito incidere nella sfera giuridica altrui, in forza di un solo atto autorizzativo ed a prescindere dall’esistenza di un rapporto gestorio, concependo, in ultima istanza, la procura alla stregua di un negozio astratto
[65].
Benché tale impostazione abbia la tendenza a misconoscere possibili ipotesi di responsabilità del principale
, tuttavia la nozione che da di autorizzazione appare decisamente più ampia di quella del conferimento del potere di rappresentanza: la prima infatti non è altro che un semplice conferimento di poteri, che può avere “rilevanza facoltizzante nei rapporti esterni verso i terzi, ma può anche non avere tale funzione ed esaurirsi nei rapporti interni fra autorizzante ed autorizzato”
[66].
L’autorizzazione è pertanto il fatto che decide o meno della legittimazione del rappresentante e dunque del verificarsi della patologia, benché non manchino quegli autori che abbiano sottolineato come il momento autorizzativi nel conferimento della rappresentanza non possa essere completamente disconosciuto
[67].
La conclusione evidente che si rende necessaria prima di affrontare nello specifico le problematiche connesse alla rappresentanza, secondo le disposizioni del nostro codice civile, è che oggi non sembra si possa rinvenire una categoria unitaria di patologie della rappresentanza, che assurga a comune denominatore di queste. Essendo ciò il segno del fatto che tali patologie sono tra loro irriducibili e che la loro specificità è anche sintomatica di diverse esigenze di tutela giuridica, che non sono tra loro preordinate.
[1] V. bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 79: “ La rappresentanza soddisfa una fondamentale esigenza della vita di relazione, cioè quella della sostituzione nello svolgimento dell’attività giuridica. Precisamente, mediante la rappresentanza il soggetto può farsi sostituire da altri nel compiere o ricevere atti giuridici. Spesso varie circostanze (lontananza, malattie, ecc) o anche ragioni di opportunità richiedono che la persona si avvalga di sostituti per lo svolgimento della vita di relazione. Il ricorso ai rappresentanti diventa poi normalmente indispensabile nello svolgimento dell’attività imprenditoriale quando la complessità e la molteplicità per gli affari non ne consentono una trattazione diretta da parte dell’imprenditore. La rappresentanza volontaria può dirsi quindi strumento di ampliamento della sfera giuridica del soggetto”.
[2] V. Bigliazzi Geri L., Breccia U., Busnelli F.D., Natoli U., Diritto civile, I, Torino, 1987, pag. 3: “Si tratta di un istituto di largo impiego e non solo nella sua versione legale (le cui più significative applicazioni sono costituite dalle ipotesi di cui agli art. 320 e 354 cc), ma anche e soprattutto quando ad avvalersene siano, allora sulla base di una scelta rimessa alla volontà degli interessati (e si parla pertanto di rappresentanza volontaria), soggetti – segnatamente operatori economici – il cui giro di affari risulti tale da non consentire loro di provvedere a curare di persona tutti i propri interessi”.
[3] Rileva in tal senso l’indagine svolta da Bonell M.J., Un codice internazionale del Diritto dei Contratti (i principi UNIDROIT dei contratti commerciali internazionali), Milano, 1995, pagg. 273 ss, ove si rileva anche l’oggettiva difficoltà di costruire un modello organico di rappresentanza a livello internazionale, perché si è in presenza di una situazione normativa particolarmente articolata.
[4] Nota infatti tomassetti C., La rappresentanza, Milano, 2005, pag. 3: “Si legge da un passo tratto da Ulpiano che nemo alieno nomine lege agere potest. Lo sbarramento all’ingresso del diritto romano classico alla fattispecie della rappresentanza è dovuto alla presenza in esso di principi fondanti, della natura strettamente personale del vincolo giuridico, e dal divieto di contrarre a favore di un terzo. Si avverte forte, in quell’ordinamento, la presenza del concetto di sovranità dell’individuo secondo cui ogni individuo è il vero e solo rappresentante naturale dei suoi propri interessi”.
[5] In tal senso configurandosi come un’ipotesi di rappresentanza prevalentemente indiretta, come rilevano Bigliazzi Geri L., Breccia U., Busnelli F.D., Natoli U., Diritto civile, I, Torino, 1987, pag. 4 ss, specificando che tale forma di rappresentanza, definibile anche come interposizione gestoria, con figura caratteristica proprio nel mandato, fosse ipotizzabile nel diritto romano. Viceversa la figura della rappresentanza diretta verrà solamente nei secoli successivi, ribadendosi a tale proposito la rilevanza dello sviluppo dei rapporti commerciali.
[6] In realtà, rileva tomassetti C., La rappresentanza, Milano, 2005, pag. 3: “ il cognitor è una figura di sostituzione meramente processuale che non si fonda su un mandato ma, il suo potere trae origine da un complesso procedimento formale dato dalla pronuncia di parole certe e determinate.
[7] Dunque, alla stregua di queste considerazioni, nota tomassetti C., La rappresentanza, Milano, 2005, pag. 4 ss., la rappresentanza non sarebbe altro che una figura più sociale che giuridica, intervenendo solamente tra gli appartenenti al ristretto nucleo familiare ed essendo costituita da elementi puramente oggettivi (ossia i rapporti gerarchici o di servitù) ed, infine, non essendo connotata da alcuna espressione di volontà autorizzatoria del dominus.
[8] Nota, al riguardo, tomassetti C., La rappresentanza, Milano, 2005, pag. 2: “…varie disposizioni dettate in tema di mandato civile e commerciale rimandano a quel concetto di sostituzione con effetti diretti nella sfera giuridico patrimoniale del dominus, distinta dal tipo mandato senza rappresentanza. Infatti, nell’art. 1144 cc si dispone che il dominus gestionis deve direttamente eseguire i contratti del gestore utilmente conchiusi a suo nome e tenerlo indenne per quelli conchiusi si per suo conto, ma non a nome suo, bensì a nome proprio. L’art. 1744 cc dispone a sua volta che quando il mandatario agisce in suo nome, il mandante non ha azione contro coloro contro i quali il mandatario ha contrattato…in tal caso però, il mandatario è direttamente obbligato verso la persona con cui ha contrattato come se l’affare fosse suo proprio. L’art. 1752 cc recita del resto che il mandante è tenuto ad eseguire le obbligazioni contratte dal mandatario secondo le facoltà che gli ha date”.
[9] La codificazione del 1942 dunque, recependo la precedente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, ha colmato una lacuna notevole, attenuando il distacco della disciplina della rappresentanza dalla sede del mandato, in considerazione del fatto che essa può riguardare anche rapporti diversi: società, locazione di opere, tutela. Tale innovazione, che trova riscontro in alcuni ordinamenti giuridici come il codice svizzero delle obbligazioni, quello tedesco del 1896, e del 1975, costituisce appunto un progresso rispetto al codice civile del 1865, pur non mancando tuttora incongruenze sistematiche soprattutto in relazione al mandato.
[10] Sul merito si osservino le considerazioni svolte da Pugliatti S., Programma introduttivo ad un corso sulla rappresentanza di diritto privato, pagg. 501 ss.
[11] Rileva al De Nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 445: “si può dare maggior peso ai punti di contatto, e così considerare unitamente le due figure; si può dare maggior peso alle divergenze e così distinguerle e contrapporle. Non sembra però comunque corretto dedurre, dalla asserita differenza fra le due figure, la integrale inapplicabilità degli art. 1388 cc ss. alla rappresentanza legale. Che, anzi, ciò che occorre accertare è quali tra codeste norme siano applicabili anche alla rappresentanza legale, e quali non lo siano”.
[12] La funzione tipica della rappresentanza legale è quella di consentire lo svolgimento di attività giuridiche a soggetti che non potrebbero altrimenti svolgerla, e dunque di sostituire per un’esigenza di ordine pubblico (da qui l’attribuzione per legge) l’interessato con un altro soggetto che agisca in sua vece.
In questo caso è appunto specificato che la legittimazione può essere acquisita automaticamente per il solo fatto di essere nel possesso di determinati requisiti, come avviene per i genitori, oppure in seguito ad intervento del giudice, che tuttavia valuta sempre le condizioni alla stregua delle disposizioni legislative.
[13] Nota Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, pag 282 ss., che la rappresentanza legale e quella volontaria si distinguono, oltre che per la diversità della fonte, per altri due ordini di ragioni. Da un lato, perché il rappresentante, quando è nominato dal giudice, deve essere possibilmente scelto tra persone legate al rappresentato da legami di solidarietà familiare, mentre nessun vincolo esiste in ordine alla scelta del rappresentante nella rappresentanza volontaria. Dall’altro lato perché mentre la rappresentanza legale interviene in situazioni tipiche, determinate dalla legge e non è estensibile né per volontà delle parti, né ad opera del giudice, quella volontaria può essere posta in essere in una serie indefinita di casi e per le più diverse ragioni. Presenta dunque caratteri di atipicità in contrapposizione alla tipicità di ipotesi della rappresentanza legale. L’autore giunge pertanto a ritenenere la rappresentanza legale non realmente una forma di rappresentanza in senso tecnico.
A questa tesi obiettano coloro i quali sostengono che la diversità della fonte, pur incidendo su taluni aspetti della rappresentanza e della relativa disciplina, non è sufficiente a configurare due diverse forme di rappresentanza, essendo invece sia quella legale che quella volontaria riconducibili ad un fenomeno essenzialmente unitario. Questa stessa opinione è quella peraltro sposata dalla giurisprudenza prevalente.
Si vedano anche le interessanti osservazioni svolte da De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 424 : “Se si procedesse ad una quotazione degli istituti giuridici, la rappresentanza risulterebbe in costante rialzo, così come, per converso, risulterebbero in costante e netto ribasso i vizi classici della volontà…il Legislatore del 1942 ha dettato una disciplina specifica per la rappresentanza, distinta da quella del mandato: ciò costituisce un indubbio progresso rispetto al codice previdente, anche se tuttora si rinvengono nel capo del mandato norme proprie della rappresentanza”.
[14] In effetti la tesi prevalente in dottrina ritiene proprio che sia la procura a costituire la fonte prevalente della rappresentanza. Si vedano al proposito le opinioni di autori quali Betti E., ; Santoro Passarelli ; Scognamiglio.
[15] Si veda in particolare Pugliatti S., Programma introduttivo ad un corso sulla rappresentanza di diritto privato, pagg. 501 ss.
[16] La teoria è ascrivibile in particolare a Natoli U. La rappresentanza, in Enciclopedia del diritto, XXXVIII, Milano, 1987, pag. 476 ss.
[17] V. bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 77: “A questa regola si sottraggono i negozi personalissimi come il testamento, la revoca del testamento e in genere i negozi familiari. Per il matrimonio è eccezionalmente prevista la possibilità di una celebrazione per procura (111 cc) ma, secondo la migliore opinione, il procuratore ha in realtà la posizione di nuncio. Se sussiste un apprezzabile interesse le parti possono convenire che un atto debba essere compiuto personalmente. Così , ad es., può essere precluso al socio di partecipare alle assemblee mediante un rappresentante volontario: tale preclusione può tuttavia essere posta solo mediante un atto contrattuale non essendo di competenza del gruppo”.
[18] Sostenuta da Scognamiglio, contratti in generale, Torino, 1970 pagg. 63 ss.
[19] Specifica bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 77 che: “Il rappresentante può anche limitarsi a ricevere atti o prestazioni in nome del rappresentato. Un’esplicita previsione normativa, si noti, indica il rappresentante del creditore come legittimato a ricevere la prestazione (art. 1188, comma 1, cc). Inoltre il potere di ricevere atti o prestazioni in nome del rappresentato prende il nome di rappresentanza passiva. Il rappresentante, volontario o legale, può avere anche la rappresentanza sostanziale nel processo, cioè il potere di agire o di essere convenuto in nome del rappresentato. Questa rappresentanza è indicata come sostanziale per distinguerla rispetto alla rappresentanza processuale, quale potere del difensore di rappresentare la parte nel giudizio. La rappresentanza processuale ha per oggetto il compimento o il ricevimento di quegli atti attraverso i quali si attua il diritto di difesa, e che la legge riserva al difensore”.
[20] In tal senso si esprime bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 79 ss., il quale richiama a supporto delle sue argomentazioni la sentenza della Cassazione n. 674 del 1973, in cui si specificò che nel linguaggio dei codici vigenti, sia di diritto sostanziale che di rito, con il termine “rappresentanza” si designava non soltanto il fenomeno rappresentativo in senso proprio, quello degli articoli 1387 e seguenti del codice civile, ma anche quello della cosiddetta immedesimazione organica, alla quale è quindi applicabile la disciplina positiva dettata per la rappresentanza, in difetto di una contraria indicazione letterale della legge o di una ragione di incompatibilità intrinseca tra questo fenomeno e tale disciplina.
[21] V. De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 428: “ L’art. 1392 cc che parla di forma della procura nell’indicare le modalità del conferimento del potere di rappresentanza, e l’art. 1396 cc, che parla di revoca ed estinzione della procura nell’indicare le possibili vicende di quel potere, identificano l’atto di conferimento della rappresentanza in un negozio apposito, appunto, la procura”.
[22] In merito, sostiene bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 83: “si sostiene che la procura è un negozio astratto. Ciò è inteso nel senso che la procura produce il suo effetto a prescindere dal rapporto sottostante tra rappresentante e rappresentato (principio della cd separazione). È dubbio, per altro, che si possa parlare propriamente di astrattezza. Al riguardo è da rilevare che la procura esprime essa stessa una tipica sufficiente ragione giustificativa dell’atto, e cioè l’interesse del dominus a farsi sostituire da altri nel compimento di attività giuridiche. Se in concreto la causa non esiste o è illecita, il negozio di procura deve reputarsi nullo in applicazione del generale principio di causalità del negozio giuridico. Se pensi, ad esempio, ad una procura conferita per l’attuazione di un rapporto contrario all’ordine pubblico. La nullità della procura non può tuttavia essere opposta ai terzi che abbiano fatto ragionevole affidamento su di essa. Sul principio dell’invalidità prevale infatti quello dell’apparenza imputabile al rappresentato”.
Si richiama anche l‘opinione di Zaccaria A., commentario breve al codice civile, a cura di Cian e Trabucchi, Padova, 1997, pagg. 1298 ss., il quale fa riferimento al fatto che i vizi inerenti al negozio di procura potrebbero essere fatti valere dal terzo solo alle stesse condizioni in cui a detto terzo possono essere opposti i vizi inerenti al negozio rappresentativo (riconoscibilità dell’errore, ecc).
Al riguardo interessanti rilievi vengono svolti anche da De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 429, il quale specifica che “a favore della configurabilità di una ulteriore forma negoziale della rappresentanza (il contratto che vincola il rappresentante al rappresentato) può addursi che nei contratti che possono essere con o senza rappresentanza sarebbe una inutile superfetazione qualificare come procura la clausola che prevede la rappresentanza; e soprattutto che nei casi in cui la rappresentanza è un naturale negotii (si pensi alla figura dell’institore e del raccomandatario) manca persino la base su cui costruire una procura accanto al regolamento contrattuale del rapporto di gestione. Un caso ulteriore di contratto che comporta come naturale negotii la rappresentanza sembra essere – stando alla lettera della legge – quello del contratto di gestione di patrimoni con le SIM, le quali possono agire esclusivamente in nome e per conto di terzi”
[23] Rilevante in tal senso la pronuncia della Corte di Cassazione in data 14 marzo 1991, n. 2712, riportata in Giurisprudenza italiana, 1992, I, pagg. 132 ss., in cui si sostiene che “ai fini del conferimento della rappresentanza a vendere beni immobili è necessario che il rappresentato faccia pervenire volontariamente la procura, negozio unilaterale recettizio, al rappresentante, con la conseguenza che il conferimento dei poteri rappresentativi non può ritenersi verificato se il rappresentato non abbia consegnato l’atto scritto contenente la procura alla persona nominata come rappresentante, ma l’abbia trattenuto presso di sé o presso un proprio fiduciario”.
[24] Osservando la giurisprudenza al riguardo può citarsi la sentenza della Cassazione del 19 marzo 1980, n. 1839, dove si è specificato che se per il contratto che il rappresentante deve concludere (nel caso in questione si trattava di una transazione) la legge preveda la forma scritta, sia pure non ad substantiam ma solamente ad probationem la procura dovrà essere comunque conferita in forma scritta , con la conseguenza che, essendo soggetta al medesimo regime probatorio dell’atto cui si riferisce, le restrizioni nell’utilizzazione dei mezzi di prova stabilite per il negozio rappresentativo valgono sempre anche per la procura medesima.
Al riguardo si veda anche De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 430: “Se il rappresentante deve porre in essere un negozio unilaterale, la regola della corrispondenza della forma opera per i negozi unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale (e così, ad esempio, per la rinuncia al diritto di prelazione, e per la diffida ad adempiere); non opera invece per il conferimento del potere di porre in essere un mero atto giuridico (quale ad esempio la costituzione in mora del debitore), conferimento che può perciò essere attuato con assoluta libertà di forme. Se per il negozio rappresentativo la forma è prevista ad substantiam, anche la procura deve avere la stessa forma, per essere valida. Se la forma è prevista. Se la forma è prevista ad probationem anche la procura dovrà essere provata con ricorso alla prova documentale, o altri mezzi straordinari di prova, il giuramento e la confessione. La giurisprudenza ammette la procura informale quando la forma è voluta dalle parti, ma non è imposta dalla legge”.
[25] V. De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 430: “Nei casi in cui la rappresentanza è conferita mediante contratto, il tema appartiene al singolo tipo contrattuale”.
[26] V. bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 71: “La rappresentanza è il potere di un soggetto (il rappresentante) di compiere atti giuridici in nome di un altro soggetto (il rappresentato). Questa nozione che identifica la rappresentanza nella legittimazione ad agire in nome altrui, concerne propriamente la rappresentanza diretta”.
[27] La definizione, chiarisce bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 72 ss., è dovuta a Trabucchi, il quale indica appunto in questi termini le due contrapposte concezioni che si ispirano alle idee della sostituzione e della collaborazione.
[28] In tal senso si veda bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 73 ss.
[29] Per una disamina storica della figura si veda bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 76: “la figura del nuncio era conosciuta in diritto romano, dove invece non era ammessa in termini generali la rappresentanza diretta. Avvertiva il giurista romano che nemo alieno nomine lege agere potest”.
[30] Come nota bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 75 ss., egli cioè fa riferimento al fatto che non sia configurabile alcuna riferibilità a nessun soggetto della dichiarazione del falso nuncio e ribadisce la conseguente inapplicabilità della normativa nell’ipotesi del falso rappresentante, pur potendosi prospettare eguali soluzioni per taluni aspetti corrispondenti (come, appunto, accade per il risarcimento del danno).
[31] Interessanti rilievi vengono svolti sulla questione da De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 425: “come vedremo meglio in seguito, l’efficacia diretta può prodursi anche quando il rappresentante difetta dei poteri, perché questi si sono estinti, se la causa di estinzione è senza colpa ignorata dal terzo contraente (art. 1396 cc); anche quando il rappresentante ha agito senza potere, se il dominus ratifica il contratto (art. 1399 cc); anche quando il rappresentante ha agito senza potere, se la carenza di poteri è ignorata dal terzo contraente a causa di un comportamento imputabile al dominus (principio di apparenza); anche quando il rappresentante ha agito non nell’interesse del rappresentato, bes’ in conflitto di interessi, se tale conflitto non era conosciuto o conoscibile dal terzo contraente (art. 1394 cc).
[32] V. De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 426: “per agire nel nome, espressione ricca di accezioni, si suole intendere che il rappresentante agisce menzionando il soggetto nella cui sfera giuridica devono ripercuotersi gli effetti dell’atto (la cosiddetta spendita del nome, o contemplatio domini). Questa è anche l’accezione accolta dalla giurisprudenza. Le corti insistono sulla necessità della contemplatio domini perché il contratto rappresentativo produca effetti direttamente in capo al rappresentato. Ma poi escludono che la spendita del nome debba risultare dal contratto; escludono la necessità di formule solenni o particolari: talora neppure pretendono una dichiarazione, e si accontentato di un diverso comportamento del rappresentante, perché inequivoco; talora ammettono che la qualità del rappresentante possa essere dedotta anche da altri elementi. È facile capire che, quanto più la giurisprudenza ammette forme implicite di contemplatio, tanto più il requisito della spendita del nome risulta, almeno di fatto, svalutato.
[33] Tra quegli autori che maggiormente hanno ribadito la rilevanza della teoria sostanziale può annoverarsi Pugliatti S., sulla rappresentanza indiretta, in diritto e giurisprudenza, 1947, I, pagg. 6 ss, il quale ritenne appunto che l’essenza stessa del fenomeno rappresentativo fosse interamente da configurarsi all’interno del principio di cooperazione, volta alla cura dell’interesse del dominus. In particolare egli sostenne che chi si determina a conferire ad un altro un dato incarico, manifesterebbe con ciò l’intento di voler conseguire il risultato che ne costituisce l’oggetto; al tempo stesso chi accetta l’incarico, manifesterebbe implicitamente il proposito di cooperare al conseguimento del fine stesso, per parte di colui che glielo ha conferito.
[34] Si veda, al riguardo Pugliatti S., sulla rappresentanza indiretta, in diritto e giurisprudenza, 1947, I, pag. 54: “Il rappresentante è un cooperatore del principale nei rapporti con i terzi: il principale, in virtù del rapporto di gestione (incarico) si è assicurato la sua opera, per il compimento di uno o più affari propri. Quando il rappresentante si presenta ai terzi come tale, non fa che dichiarare che, in altri termini, egli agisce per l’esecuzione dell’incarico ricevuto, e quindi con riferimento al rapporti di gestione che lo tiene legato al principale. La rappresentanza perciò si concreta in un modo di atteggiarsi del cooperatore esterno, per l’esecuzione dell’incarico, cioè si risolve, in ultima analisi, in un modo di esecuzione dell’incarico stesso. È questo incarico sia legale che convenzionale, che giustifica la ricerca e l’adozione della rappresentanza, la quale è un riflesso nel campo giuridico e una proiezione nelle relazioni esterne, del rapporto di gestione”.
[35] Si veda in merito quanto sostenuto da Pacchioni G., Elementi di diritto civile, Milano, 1944, pagg. 290: “In tanto…il rappresentante obbliga il rappresentato, in quanto, contraendo con il terzo a suo nome, gestisce un affare suo, cioè tutela un suo interesse. In questo rapporto sostanziale, e non nella formale dichiarazione del rappresentato, che in generale non esiste, o che esiste solo come espressione di quella appartenenza, ha il suo vero fondamento l’istituto della rappresentanza, per il quale gli effetti del negozio conchiuso dal gestore rappresentante si verificano nella persona del dominus (rappresentato). La controversia, come si vede, è di estrema sottigliezza…Noi ci accontenteremo, quindi, di rilevare che l’autorizzazione rappresentativa è sempre costituita da un rapporto che fa ritenere dovere gli effetti del contratto conchiuso dal rappresentante, verificarsi nella persona del rappresentato; e questo rapporto, sia esso di fatto – o venga costituito col mandato o con altro contratto o atto – è sempre un rapporto di appartenenza del negozio gerito dal rappresentato.
[36] Si vedano gli scritti di Natoli U., La rappresentanza, in Enciclopedia del diritto, XXXVIII, Milano, 1987, pag. 475: “…non può pensarsi se non che essa si rifletta in un particolare vizio della causa di quel negozio analogo a quel vizio degli atti della Pubblica Amministrazione che si denomina sviamento di potere e che pur inficiandone la legittimità, non ne provoca la nullità”.
Sul merito anche Mirabelli S., Dei contratti in generale, in Commentario al codice civile, torino, 1990., pagg. 342: “…anche nell’esercitare l’attività di deviazione dalle funzioni asse4gnate, il rappresentante agisce nell’ambito della legittimazione, giacché l’attività è riferita alla posizione del titolare e rientra formalmente nell’esercizio del potere conferito al rappresentante…l’abuso ha luogo, dunque, quando l’attività del rappresentante è sviata dalla funzione per cui è prevista, pur rimanendo formalmente nell’ambito delle facoltà attribuite: è una situazione questa, che ricorda quella particolare forma di eccesso di potere negli atti amministrativi, che viene appunto denominata sviamento di potere”.
[37] V. anche tomassetti C., La rappresentanza, Milano, 2005, pag. 5: “che non si tratti di un vizio della volontà discende dal fatto che qui la volontà del rappresentante è diretta proprio al conseguimento del risultato raggiunto: questa si è concretamente formata. Del resto l’abuso di potere rappresentativo non fa neppure venire meno la legittimazione ad agire in nome e per conto altrui. La caducazione della procura sottoporrebbe il negozio concluso alla condizione legale della eventuale successiva ratifica (applicandosi la disciplina del falsus procurator) e non alla sanzione dell’annullabilità, come espressamente previsto dall’articolo 1394 del codice civile.
[38] In tal senso pare possa essere indirizzato il pensiero di Mirabelli S., Dei contratti in generale, in Commentario al codice civile, torino, 1990., pagg. 345: “…in secondo luogo si distingue dalla rappresentanza la gestione di affari (art. 2028 cc), anche quando si pone come gestione rappresentativa, quando, cioè, il gestore assume impegni manifestando l’alienità dell’affare e tali impegni spiegano effetto immediato sul patrimonio del dominus. Manca, infatti, in questo caso, l’atto di autonoma attribuzione della facoltà di rappresentanza.
[39] In tal senso Natoli U., La rappresentanza, in Enciclopedia del diritto, XXXVIII, Milano, 1987, pag. 478 ss: “….l’agire in nome anche in questo caso vale a creare l’effetto della rappresentanza, in quanto sia sostenuto da un vero e proprio rapporto di gestione quale solo l’utilitas dell’intervento è qui idonea a costituire”.
[40] Tra i fautori della teoria formale vi è soprattutto . bianca C.M., diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, pag. 73: “…rimane da chiedersi se l’agire nell’interesse del rappresentato condizioni la legittimazione del rappresentante diretto, se cioè l’effetto proprio dell’esercizio del potere rappresentativo presupponga l’esplicazione di un rapporto di gestione. La soluzione normativa è nel senso della rilevanza del conflitto di interessi col rappresentato. Il conflitto d’interessi non priva però di legittimazione il rappresentante ma rende annullabile l’atto, semprechè il conflitto fosse conosciuto o riconoscibile da parte del terzo. Anche se in conflitto di interessi con rappresentato l’atto è quindi efficace, salva la possibilità della sua rimozione mediante l’azione di annullamento. In definitiva può dirsi che la cura dell’interesse del rappresentato è causa giustificativa dell’attribuzione del potere rappresentativo ed elemento di qualificazione di tale potere, mentre il perseguimento effettivo dell’interesse del rappresentato non incide sul potere rappresentativo ma sul buon uso di esso.
[41] Cfr. le osservazioni svolte da Messineo F., Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1958, pag. 526: “l’atto (propriamente, negozio), con cui si investe della qualità di rappresentante (volontario o negoziale) – ossia gli si conferisce il relativo potere e si determinano il concreto contenuto e limiti di tale potere – è l’autorizzazione rappresentativa, o procura”.
[42] Sul merito torna Messineo F., Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1958, pag. 527: “è il caso di notare che il conferimento di poteri presenta due lati, o aspetti: A) uno esterno, che consiste in un negozio unilaterale…che è diretto ai terzi…e serve ad accreditarlo verso quei terzi: qui è l’elemento decisivo: cioè la procura, la quale crea rappresentanza; B) un altro, interno, che consiste in un contratto…e che concerne i rapporti (interni) di gestione tra rappresentante e rappresentato (1703); ma esso non riguarda i rapporti che si stabiliscono tra rappresentante e…terzi; e, per se, non è fonte di rappresentanza”.
[43] Interessanti rilievi li svolge, al riguardo, santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, pag 282: “Il potere di rappresentanza spetta e non può, come s’intende, che spettare in confronto di terzi, ai quali non deve né può interessare quale sia il rapporto di gestione che leghi l’agente all’interessato, e per cui al primo sia stato conferito il potere di rappresentanza. La procura è il negozio con cui l’interessato investe di fronte ai terzi un soggetto del potere di rappresentarlo”.
[44] V. Messineo F. Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1958, pag. 527: “nei confronti dei terzi è decisivo – circa i poteri del rappresentante – il tenore della procura (specialmente se essa risulti da atto scritto) quindi se, per intese, corse tra rappresentato e procuratore, essi poteri sono più ampi, o più ristretti, di quanto risulti dalla procura, questa maggiore o minore ampiezza non è opponibile ai terzi”.
[45] V. in merito tilocca E., Il problema del mandato, I, il mandato ad acquistare e l’interposizione reale del mandatario, in rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1969, pag. 918: “…se è vero che nell’ipotesi dell’agire per conto il cooperatore acquista e perde nello stesso istante a favore del dominus , è evidente come l’interesse di quest’ultimo non si esteriorizzi nei confronti del terzo ma rilevi soltanto nei rapporti interni, sia pure così intensamente che non occorre, perché l’acquisto cada nella sfera del dominus, né un atto di trasferimento dall’agente, né un’iniziativa qualsiasi dello stesso dominus. Se effettivamente il rapporto interno avesse rilevanza esterna, dovrebbe acquistare solo ed immediatamente il dominus ma non anche il cooperatore, o meglio non prima del dominus il cooperatore”.
[46] In proposito esprime la propria opinione anche tomassetti C., La rappresentanza, Milano, 2005, pag. 14: “Sembra preferibile aderire a quest’ultima ricostruzione; l’effetto traslativo deriva dal contratto di mandato e presuppone il passaggio precedente dell’acquisto tra terzo e mandatario.
[47] La sentenza viene riportata da tomassetti C., La rappresentanza, Milano, 2005, pag. 14 ss., ma è possibile rinvenirne il testo anche in Foro italiano del 1994, I, pag. 1053 ss., più precisamente il collegio osservò che l’articolo 1706 del codice civile, che conferisce al mandante il potere di rivendicare le cose mobili acquistate per proprio conto dal mandatario, presupporrebbe che all’atto stesso dell’acquisto da parte di questo si attuino due distinti trasferimenti, logicamente successivi, ma cronologicamente contemporanei. Uno dal terzo al mandatario e l’altro dal mandatario al mandate. In realtà, si aggiunge nella motivazione, il contratto con il quale viene pattuito l’acquisto di cose mobili ad opera del mandatario vede quali parti uniche e necessarie il terzo alienante e quale acquirente lo stesso mandatario. Pertanto a questi solamente il primo trasferisce o rimane obbligato a trasferire le cose mobili, specificate dal contratto, senza che possa sottrarsi alla pattuita consegna alla controparte. In caso di alienazione del bene di interesse storico o artistico soggetto a vincolo poi, la norma valutata dal giudice, che impone al proprietario (o detentore) di denunciare al competente ministero l’atto che trasmetta la proprietà o la detenzione del bene, comporta il dovere dell’alienante di rendere edotta l’amministrazione della pattuizione contenuta nell’atto medesimo e quindi del trasferimento al rappresentato. Nel contempo il mandatario senza rappresentanza rimane investito di analogo dovere di denuncia, con riferimento al contratto di mandato per l’avverarsi, alla stregua del principio posto dall’articolo 1806, comma primo del codice civile, del contestuale e automatico trasferimento del mandante.
[48] Si vedano, a titolo esplicativo, le osservazioni svolte da Mirabelli G., Delle obbligazioni e dei contratti in generale, in Commentario al codice civile, IV, Torino 1967, pag. 316: “Questa definizione prescinde dalla considerazione della sussistenza o meno di un interesse del soggetto per il quale si agisce, in quanto rappresentanza può aversi anche ove con l’attività sia soddisfatto anche un interesse del rappresentante o di terzi (articolo 1723, comma 2, cc) ed in quanto il requisito che caratterizza l’istituto non va ravvisato nell’alienità dell’interesse, ma nell’alienità della posizione giuridica”.
[49] Cfr. torna Messineo F., Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1958, pag. 515: “Bisogna avvertire che, se è regola che l’attività del rappresentante negoziale si svolga nell’interesse (e nell’esclusivo interesse), ossia per conto del rappresentato (cosiddetto mandatum mea gratia), la cosa non è affatto essenziale…anzi vi è una grande varietà quanto al soggetto nel cui interesse l’attività del rappresentante è spiegata, potendosi avere – con l’assenso del rappresentato – o rappresentanza nell’interesse del rappresentante (cd procurator in rem suam, mandatum tua tantum gratia) o nell’interesse comune del rappresentante e del rappresentato (mandatum tua et mea gratia); o del rappresentante e del terzo (mandatum mea et aliena gratia).
[50] Le osservazioni sono riferibili a De nova G., La rappresentanza, in Il contratto, Torino, 2004,pagg. 433 ss., l’autore specifica come in tutti questi casi si parli di difetto di rappresentanza o, nell’ultima ipotesi, di eccesso di rappresentanza. L’autore aggiunge che “difetto ed eccesso, sono, quanto agli effetti, equiparati. Conseguenze diverse ha invece l’abuso di rappresentanza, quale si ha in caso di conflitto di interessi fra il rappresentato e il rappresentante, che ha i poteri, ma ne usa in contrasto con l’interesse di chi glieli ha conferiti.”
[51] La definizione è di Francario L.., Categorie giuridiche e patologie della rappresentanza, in Bessone M., Manuale di diritto privato, Torino, 2000, pag. 57: “ I margini operativi consentiti dalla disciplina positiva risultano talora impropriamente ampliati da ricostruzioni di stampo meramente concettualistico, da reputare del tutto estranee all’attuale assetto legislativo e pur tuttavia meritevoli di attenzione in quanto legittimate dal ceto dei giuristi. L’approccio acritico seguito da qualche interprete porta poi a disdegnare il contingente come frutto di scelte non tecniche, improprie (politiche) immeritevoli di considerazione. Per fortuna l’impatto pratico di queste costruzioni storiche è sempre minore, anche a causa di una migliore capacità critica e selettiva mostrata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, oltre che della più specifica capacità di resistenza delle innovazioni legislative di tendenza, che non si esauriscono in mal riuscite sperimentazioni”.
[52] Nota quindi Francario L.., Categorie giuridiche e patologie della rappresentanza, in Bessone M., Manuale di diritto privato, Torino, 2000, pag. 58: “Occorre però distinguere tra le diverse categorie giuridiche operate dai giuristi in questo settore e consentire che, ai fini descrittivi, siano utilizzate categorie che risultano d’ausilio alla penetrazione del problema. Si deve circoscrivere l’azione o addirittura emarginare l’uso di categorie che comportano deviazioni incompatibili con il dettato legislativo e vere e proprie ipostatizzazioni concettuali, che implicano scelte irrispettose del diritto vigente o, comunque, estremamente riduttive rispetto alla complessità fenomenica da governare”.
[53] Si ricordi infatti che divergono tra loro la posizione del falsus procurator e del falsus nuncius ve non vi è un vero e proprio difetto di legittimazione in colui che pone in essere il negozio, ma a difettare è semmai l’autore del negozio stesso. In tal senso si esprime Vittoria D., Il falsus nuncius, in rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1973, pagg. 566 ss..
Esprime invece opinione contraria in tal senso Orlandi M., Falsus nuntius e falsus procurator, in Rivista di diritto civile, 1975, I, pagg. 347 ss, contestando che non vi sarebbe assenza di un autore, ma piuttosto difformità tra realtà e contenuto della dichiarazione
[54] Lo ricorda, tra gli altri, rescigno P., Legittimazione, in novissimo Digesto italiano, 1965, IX, pagg. 720 ss. ; pur sussistendo in realtà teorizzazioni differenti che prospettano una corrispondenza biunivoca con la misura dell’inefficacia, che comporterebbe l a conseguente esclusione del ricorso allo strumento di tutela costituito dall’annullamento dell’atto. In questo senso si esprime soprattutto Dionisi C., Il contratto con se stesso, Napoli, 1982, pagg. 240, il quale, agli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che giustificano l’operatività dell’articolo 1394 del codice civile alla stregua di assenza o paralisi di legittimazione, obietta che “Pur tralasciando lo scontato rilievo secondo cui, ove davvero si versasse in tema di mancanza (seppur successiva) di legittimazione, al più si sarebbe dovuto evocare il concetto di inefficacia, non quello di annullabilità, a dubitare seriamente della fondatezza di questa opinione induce in via preliminare la circostanza che, pur sussistendo l’abuso di potere, il rappresentato non è tenuto ad alcun onere perché l’effetto rappresentativo si attui (quantunque in modo precario). Invero, se realmente si versasse in materia di difetto di legitimatio, sarebbe indispensabile, ai fini della realizzazione della vicenda in parola, una iniziativa del dominus, volta a rimediare – come accade, per l’appunto, in sede di rappresentanza senza potere, con l’atto di ratifica – alla manchevolezza di tale presupposto”.
[55] In tal senso anche Di Majo A., Legittimazione negli atti giuridici, in Enciclopedia del diritto, 1974, XXIV, pagg. 53 ss, che assegna alla nozione il senso di “concreta idoneità del soggetto a svolgere atti o attività o comunque a far valere interessi o diritti (di altri)”, prescindendo dunque dalla imputazione al legittimato della titolarità in questione. Trattandosi dunque di un’impostazione di lavoro strettamente legata all’emersione di nuovi interessi da ricondurre nel quadro più generale delle situazioni tutelabili
[56] V. Betti E., Teoria generale del negozio giuridico, 2000, Napoli, pag. 559: “Il concetto di tale potere, di cui a torto si è negata da taluni l’utilità costruttiva, è in realtà indispensabile per inquadrare l’istituo della rappresentanza nella dottrina della legittimazione del negozio; esso è accolto anche nel nuovo codice (art. 1387)…il concetto di tale potere, oltre a qualificare una situazione giuridicamente rilevante, consente anche di classificare questa in una categoria di cui sono stabiliti nettamente i confini concettuali: la categoria dei poteri conferiti ad un soggetto nell’interesse di un altro. Nella critica del concetto di potere di rappresentanza può riconoscersi fondata unicamente l’esigenza di approfondire l’indagine delle fonti di quel potere e di differenziarle secondo i rispettivi caratteri”.
[57] A tale proposito Dionisi C., Il contratto con se stesso, Napoli, 1982, pagg. 241, sostiene che in base a tale inquadramento possa giungersi a concludere che nella fattispecie in esame si debba attribuire rilevanza giuridica non al conflitto di interessi, ma, appunto, all’abuso di potere rappresentativo, “sì da subordinare l’annullabilità del contratto ex art. 1394 cc all’avvenuta effettiva deviazione del potere dallo scopo, non già alla mera situazione di dissidio fra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante”.
Si veda anche visintini G., Rappresentanza e gestione, Padova, 1992, pag. 11: “ La sistemazione concettuale del conflitto di interessi preferibile è quella di una qualificazione in termini di abuso di potere di agire per conto altrui e non soltanto nel nome di altri”.
[58] Nota, in senso critico, Rescigno P, Relazione di sintesi, in AA.VV., Rappresentanza e gestione, Padova, 1992, pag. 260: “ la formula dell’abuso è…estranea al linguaggio legislativo (dove ricorre in ipotesi affatto diverse, a proposito dell’usufrutto, dell’abuso di immagine, della potestà dei genitori) e tale uso improprio lo riferisce all’esercizio dei poteri rappresentativi è da imputare alla dottrina”.
[59] Come rileva Bigliazzi Geri L., Abuso di potere di rappresentanza e conflitto di interessi, in AA.VV., , Rappresentanza e gestione, Padova, 1992, pag. 158: “ la parola abuso richiamainfatti subito, alla mente del civilista, un altro termine: diritto. dunque una situazione essenzialmente libera sull’an ancorché, se del caso, discrezionale sul quomodo, tradizionalmente destinata a comporsi, nella mente del civilista, con la precedente locuzione abuso di diritto. Che non vedo come possa accordarsi (quand’anche resa nei termini di un più generico potere) con la legittimazione rappresentativa, fondata in ogni caso sull’obbligo. Mi sembra pertanto ragionevole pensare che nei casi indicati come abuso, eccesso, sviamento di potere, (termini tuttalpiù capaci di evocare il tipo di comportamento lesivo assunto dal rappresentante, per quel che qui soprattutto importa, volontario) di nient’altro si tratti se non dell’inadempimento di un’obbligazione e di un’obbligazione assunta dal rappresentante in funzione del soddisfacimento dell’interesse del rappresentato.
[60] V. Francario L.., Categorie giuridiche e patologie della rappresentanza, in Bessone M., Manuale di diritto privato, Torino, 2000, pag. 63: “…l’abuso di rappresentanza non esaurisce tutte le patologie possibili nelle relazioni tra rappresentante e rappresentato, potendosi riscontrare, nella realtà, una mancanza di legittimazione allorquando il rappresentante esorbiti dalle istruzioni ricevute (eccesso), ovvero allorquando agisca addirittura al di fuori di un qualunque rapporto preventivo legittimante (ipotesi entrambe previste dall’articolo 1398 cc). Mentre la rappresentanza senza potere sembra evidenziare un contrasto formalmente apprezzabile (mancanza di legittimazione), l’abuso di potere di rappresentanza sottolinea il profilo funzionale dell’attività del rappresentante (di cui si da per scontata la legittimazione), verificando piuttosto il rispetto sostanziale dell’interesse del dominus”.
[61] Nota Francario L.., Categorie giuridiche e patologie della rappresentanza, in Bessone M., Manuale di diritto privato, Torino, 2000, pag. 63: “ Qui però i rischi di un approccio psicologistico si fanno tangibili ed appare evidente il divario con gli indici normativi fissati dal legislatore, come onestamente riconosce uno dei più luicidi assertori della ricostruzione negoziale del fenomeno”.
Il richiamo dell’autore è da riferirsi a Betti E., Teoria generale del negozio giuridico, 2000, Napoli, pag. 588 ss., che asserisce appunto esplicitamente che; “sembra dubbio che codesta soluzione corrisponda alla disciplina degli artt. 1394-1395, se si raffronta con quella di altre ipotesi analoghe di conflitto di interessi, in specie con quella dell’art. 2372, secondo comma, che pure assume il conflitto di per sé solo siccome indice sufficiente di una interpretazione tipica del comportamento abusivo”.
[62] Galgano F., Il negozio giuridico, in trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1988, pagg. 350 ss.
[63] La teoria è da attribuirsi in particolare a Neppi V., La rappresentanza nel diritto privato moderno, Padova, 1930, pag. 261 ss., il quale, nello sviluppare tale impostazione sembra preoccupato soprattutto dalle esigenze probatorie che nascono in considerazione del rilievo che la procura per “l’indistruttibile carattere formalistico di quel negozio non potrebbe consistere in una dichiarazione tacita, cosicché assumerebbe importanza ricercare il consentimento preventivo oltre i confini della procura in una qualsiasi manifestazione esteriore”.
[64] “In altri termini”, nota Francario L.., Categorie giuridiche e patologie della rappresentanza, in Bessone M., Manuale di diritto privato, Torino, 2000, pag. 65, “tale configurazione vale ad avvicinare il fenomeno della rappresentanza diretta a quello della rappresentanza indiretta ma corre il rischio di accentuare oltre misura il distacco tra rappresentanza legale e rappresentanza volontaria.
Della stessa opinione anche S., Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, pagg. 240 ss., il quale contesta alla dottrina del Neppi un eccesso di zelo nel criticare l’impostazione sin lì seguita dalla dottrina comune che aveva considerato l’agire per conto altrui “soltanto nel suo aspetto formale, come astratto agire solo in nome (non anche nell’interesse) altrui: e questo errore noi abbiamo cercato di combattere”. Anche il Neppi, aggiunge l’autore, rileva che “il torto maggiore della dottrina dominante consiste, per l’appunto, nell’avere preteso di ridurre tutta la vita del fenomeno ad un solo atteggiamento esteriore, sia pure frequente ma non costante, nell’avere subordinato l’elemento sostanziale a quello formale, nell’avere anzi creduto che il primo elemento potesse addirittura essere assorbito o soppiantato dal secondo. Ma egli stesso cade nell’eccesso opposto, poiché sopprime l’elemento formale, e tenta di farlo riassorbire dall’elemento sostanziale: mentre l’esatta soluzione non può essere che quella di dare il giusto peso ad entrambi gli elementi, considerandoli nell’equilibrio della loro sintesi”.
[65] Si vedano le considerazioni svolte, tra gli altri, da Papanti Pelletier P., Rappresentanza e cooperazione rappresentativa, pag. 11: “non si ravvisa,infatti, nel nostro sistema normativo, una disposizione analoga a quella dettata in materia dal paragrafo 185 del BGB tedesco, in base alla quale possa affermarsi l’efficacia di un atto di disposizione posto in essere da un soggetto non legittimato, sul solo presupposto che ciò avvenga con il consenso dell’avente diritto. Né si può trascurare che, ancora a differenza dell’ordinamento germanico, il nostro è importato, come noto, al principio di causalità dei negozi giuridici, sicché anche sotto questo profilo, costituirebbe grave deroga ai comuni principi una configurazione della procura – qual è quella generalmente accolta – in termini di negozio astratto”.
[66] Il rilievo è di Betti E., Teoria generale del negozio giuridico, 2000, Napoli, pag. 566 ss., ove specifica che, a differenza della rappresentanza, l’autorizzazione attribuisce un potere di intromissione nella sfera giuridica dell’autorizzato con caratteristiche sue proprie, quali quelle riscontrabili nella delegazione di pagamento o nell’istituto dell’assegno bancario, ovvero nel contratto estimatorio (fattispecie nella quale la legittimazione a disporre non configura né una rappresentanza –perché il tradente dispone in nome proprio – né una pura e semplice interposizione gestoria, perché egli agisce per suo conto e nel prevalente interesse proprio”.
[67] In senso comparativistico nota Graziadei M., La rappresentanza nel diritto inglese, Podva, 1992, pag. 62: “ la nozione di authority funge nel diritto inglese da cerniera tra il lato interno ed il lato esterno del rapporto, ed entra in gioco sia nel caso in cui l’intermediario è incaricato di agire in nome altrui, sia nell’ipotesi opposta in cui l’atto deve essere eseguito in nome proprio”.
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