Usi civici e Governo del territorio

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1-Premessa: gli usi civici come materia di studio
2.Uso civico, urbanistica, governo del territorio dopo la riforma del Titolo V
3. Usi civici e tutela paesistica
4. Usi civici, parchi ed aree protette
5.Usi civici e pianificazione urbanistica
6.Usi civici e condono edilizio
7. Usi civici ed espropriazione per pubblica utilità
Bibliografia
1. Premessa: gli usi civici come materia di studio
La disciplina più generale nella quale rientra la materia “usi civici” è quella del diritto amministrativo, nei cui manuali si ritrovano delle sintetiche definizioni[1].
La conferma del profilo pubblicistico della trattazione dei beni d’uso civico viene dagli indirizzi normativi emersi a partire dalla legge 8 agosto 1985, n. 431 (cosiddetta legge Galasso), che riconosce ai medesimi carattere ambientale e paesaggistico. Tale indirizzo è stato confermato fino all’art. 142, comma 1, lett. h) del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, che considera aree tutelate per legge, fino all’approvazione del piano paesaggistico previsto dall’art. 156 del medesimo decreto “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”[2].
L’accoglimento degli usi civici nella più ampia nozione di beni ambientali segna un elemento forte di discontinuità con il passato. In questo modo gli usi civici trovano una tutela di natura costituzionale: infatti i beni ambientali sono normalmente ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 9, comma 2 della Costituzione, relativo alla tutela del paesaggio, che la Corte Costituzionale interpreta in modo assai ampio.[3]
E’ stato giustamente notato[4] che “in questo modo si è verificata una sorta di inversione logica nella giustificazione delle finalità dell’uso civico: questo era nato e si era mantenuto per primarie esigenze di vita della popolazione, quando questa traeva dalla terra i frutti del proprio sostentamento. Ai nostri giorni, quando la popolazione non ha più questa necessità, si vuole giustificare l’uso civico in chiave di mantenimento dell’ambiente naturale, attribuendo a questo mantenimento il valore di un bene della collettività in contrasto con le deturpazioni ambientali dell’uomo.[…] allorquando l’uso civico venga considerato nella prospettiva di tutela dell’ambiente, viene effettuato uno spostamento dalla collettività del luogo a tutta la collettività nazionale. In altre parole, è come se il terreno non serva più soltanto alla popolazione del luogo, ma all’intera collettività nazionale, cioè a tutti coloro che, passando per quel terreno, potrebbero essere soddisfatti nell’esigenza di mirare un paesaggio bucolico.”.
Forse però la trasformazione che ha comportato l’inserimento degli usi civici nei beni ambientali deve essere ancora indagata a pieno dalla dottrina, anche perché troppo recente è la novità, e forse deve ancora dispiegare tutti i suoi effetti. Tornando alla concezione più tradizionale, la stessa definizione di “usi civici” non vede d’accordo tutti gli studiosi. Uno dei pionieri della rinascita recente dello studio scientifico sugli usi civici, Guido Cervati, si è espresso in proposito in questo modo:
“Invero preferisco parlare di diritti e terre civiche, piuttosto che di usi, perché, come ho più volte scritto, l’espressione usi civici è una espressione relativamente recente, che serve a porre quasi una cortina di nebbia su diritti che in molte regioni d’Italia, pur nel quotidiano loro esercizio mai prima del 1927, o meglio del 1924, erano stati chiamati in tal modo. Dopo l’entrata in vigore della legislazione sugli usi civici è avvenuto poi uno strano silenzio nelle scuole italiane. E mentre ai principi del secolo i maggiori giuristi approfondivano l’analisi dei diritti collettivi, e nei fori si vantavano trattarne magistrati e avvocati insigni, sembrò poi materia da accantonare e solo rari Maestri l’affrontarono, anche se con contributi notevoli. Se ne ridiscute oggi dopo oltre mezzo secolo.”[5]. Nello stesso convegno tuttavia, Cerulli Irelli affermava che[6]: “ “Usi Civici” è espressione probabilmente imprecisa dal punto di vista storico (come noterebbe Guido Cervati), ma ormai generalmente accettata nella prassi e recepita dalla legislazione.”
Senza entrare quindi eccessivamente in questioni teoriche, l’approccio che appare più produttivo dal punto di vista operativo è quello di distinguere la materia “usi civici” nelle due componenti importanti che la compongono: la proprietà collettiva ed i diritti civici su aree private.
Rispetto alla disciplina generale quindi, mentre è chiara l’appartenenza della materia “usi civici” al diritto amministrativo, maggiore controversia suscita invece la definizione teorica della forma di proprietà rappresentata dai beni d’uso civico. V.Cerulli Irelli, in un testo ormai classico, individua “una forma di proprietà pubblica, che a differenza delle altre categorie di proprietà pubblica, e segnatamente di proprietà pubblica di beni produttivi, è imputata ad una entità soggettiva non individuale ma collettiva”[7]. I beni in proprietà collettiva di diritto pubblico sono per Cerulli Irelli quelli di originario dominio di una comunità d’abitanti, o ad essa pervenuti in esecuzione di procedure d’affrancazione d’usi civici e delle promiscuità previste dalla legge. Il significato dell’espressione “originario dominio” sottintende un lungo dibattito sulla nascita di tale forme di proprietà. Le interpretazioni la riconducono a tradizioni derivanti dal diritto romano, od anche a istituti del diritto germanico: la proprietà collettiva come forma di condominio caratterizzato dalla mancanza di quote. E’ anche presente in dottrina l’opinione che l’uso civico non sia un diritto di dominio ma di uso, sia nel caso di diritti civici su terreni privati che su terreni della collettività.[8]
In questa sede basti dire che i diritti sulla proprietà collettiva spettano ai discendenti degli originari abitanti del luogo, e sono gestiti da un ente rappresentativo di questa collettività, che assume denominazioni diverse a seconda delle diverse zone (Università agraria, Comunanza agraria, ecc.) ed in molti casi coincide con il Comune.
E’ importante sottolineare la differenza che intercorre tra la proprietà collettiva e le altre forme di proprietà pubblica dello Stato e degli altri enti pubblici, quali il demanio, il patrimonio indisponibile e quello disponibile. La normativa di riferimento rispetto a tali forme di proprietà pubblica si rinviene nel codice civile, negli articoli da 822 a 831. Molti dei principi enunciati in tali articoli sono applicabili anche alla proprietà collettiva, ma occorre fare attenzione dal punto di vista operativo a non assimilare del tutto queste diverse forme di proprietà. Infatti caratteristiche fondamentali ai fini pratici come l’inalienabilità, l’incommerciabilità , la non usucapibilità dei beni di proprietà collettiva vanno verificate caso per caso, facendo riferimento alla normativa speciale sugli usi civici. In sostanza, il demanio collettivo è cosa simile, ma non del tutto uguale al demanio pubblico descritto nel codice civile.
In questo senso, è essenziale focalizzare il rapporto che c’è rispetto alla capacità di disposizione dei diritti collettivi di uso civico della popolazione tra l’ente gestore ed i cittadini. In merito Cerulli Irelli si esprime in questo modo[9]:
“I beni in esame, pur beni a destinazione pubblica, sono oggetto di diritti collettivi di natura dominicale. Appartengono ad una comunità d’abitanti che come tale potrebbe esprimersi circa il trasferimento a terzi di una porzione del suo dominio soltanto in pubblica assemblea e con il consenso di tutti i suoi membri: secondo l’antico principio del nemine discrepante. L’impossibilità in diritto moderno di siffatte forme deliberative non comporta tuttavia il conferimento senz’altro del potere di decidere il trasferimento di porzioni del dominio comune all’ente, esponenziale della collettività, che ne costituisce la forma organizzativa in diritto moderno. La decisione dell’ente in quanto tale non ha la forza giuridica di estinguere il diritto collettivo sul bene destinato ad essere alienato ( e perciò non ha la capacità di renderlo commerciabile). La decisione dell’ente acquista una tale forza- e ciò in virtù di espressa disposizione di legge-solo per effetto del provvedimento dell’autorità amministrativa superiore (già del potere sovrano) che sta in luogo della decisione collettiva dei titolari collettivi del dominio.”
Questa impostazione permette di comprendere la differenza con le altre forme di proprietà pubblica, così come spiega le complesse forme organizzative che ha assunto la gestione della materia: dalla necessità di ottenere i provvedimenti autorizzatori da parte dell’organo competente, che fino al trasferimento alle regioni è stato il Commissario per la liquidazione degli usi civici, alla possibilità di ogni singolo cittadino utente di adire in via giurisdizionale il Commissario per la reintegra del demanio collettivo, laddove egli ritenesse che ce ne fossero le ragioni, ed il Commissario le valutasse valide.
Accanto alla proprietà collettiva, che è un fenomeno di grande ampiezza e rilevanza su gran parte del territorio nazionale, vi è l’altro aspetto importante della materia “usi civici”, che è quello dei diritti d’uso civico su terre private, che sono, come dice la legge fondamentale 16 giugno 1927, n. 1766, “diritti di promiscuo godimento”, che danno la possibilità agli utenti di fruire, insieme con il proprietario, delle possibilità di godimento che offre la cosa oggetto dei diritti stessi.[10]
La stessa legge all’art.4 classifica gli usi civici come[11]:
a) essenziali, se il personale esercizio si riconosca necessario per i bisogni della vita. Appartengono a tale classe i diritti di pascere ed abbeverare il proprio bestiame, raccogliere legna per uso domestico o di personale lavoro, seminare mediante corrisposta al proprietario.
b) Utili, se comprendano in modo prevalente carattere e scopo di industria. Rientrano in tale classe secondo la legge, congiunti con gli essenziali o da soli, i diritti di raccogliere o trarre dal fondo altri prodotti da poterne fare commercio, i diritti di pascere in comunione del proprietario e per fine anche di speculazione, ed in generale i diritti di servizi del fondo in modo da ricavarne vantaggi economici, che eccedano quelli che sono necessari al sostentamento personale e familiare.
Lo stesso articolo considera inoltre usi civici i diritti di vendere erbe, stabilire i prezzi dei prodotti, far pagare tasse per il pascolo,ed altri simili, che appartengono ai Comuni sui beni dei privati.
La legge 16 giugno 1927, n.1766 prevedeva all’art.3 la presentazione di una dichiarazione o denuncia dei diritti rivendicati sulle terre di proprietà privata, da inoltrarsi al Commissariato entro il termine di sei mesi dalla data di pubblicazione della legge. Potevano presentare la denuncia con l’indicazione degli usi rivendicati e delle terre gravate: il Comune, l’Ente agrario, la rappresentanza dei frazionisti, l’associazione degli utenti, ovvero i privati interessati.
Allo scopo di tutelare i diritti delle popolazioni rispetto ad eventuali inerzie nella presentazione delle denunce dei rappresentanti degli enti gestori, il Regio Decreto 332 del 1928, all’art.3 prevedeva la possibilità di dichiarazione d’ufficio, ovvero la possibilità per i Commissari per la liquidazione degli usi civici di promuovere la nomina di Commissari prefettizi per produrre o integrare la documentazione presentata.[12]
2.Uso civico, urbanistica, governo del territorio dopo la riforma del Titolo V
A seguito delle recenti modifiche anche costituzionali in tema di governo del territorio, è importante accennare ai rapporti che si sono fatti sempre più significativi tra le problematiche dell’uso civico e l’urbanistica, o per dire meglio, nella nuova definizione invalsa in seguito alla modifica del Titolo V della Costituzione, tra l’uso civico ed il governo del territorio.
Il concetto di urbanistica nella definizione che si era imposta prima della riforma costituzionale era riassunto in alcune disposizioni normative[13]. Secondo l’art.80 del D.P.R. 24 luglio 1977, n.616, “le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché la protezione dell’ambiente”. Successivamente l’art. 34 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 , nel disciplinare il riordino della giustizia amministrativa per materie, affermava che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”. Le definizioni sopra riportate avevano come riferimento il testo costituzionale, che all’art. 117 recitava: “la Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato….: …-urbanistica.”. Con la riforma del titolo V, entrata in vigore nell’ottobre del 2001, scompare dal testo costituzionale l’espressione “urbanistica” ed è prevista come materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni il “governo del territorio”. La Corte Costituzionale, con le sentenze n. 303/2003 e n. 307/2003 ha affermato che il governo del territorio comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività. Ha inoltre chiarito che il fatto che “la parola urbanistica non compare nel nuovo testo dell’art. 117 della costituzione non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa nell’elenco del terzo comma: essa fa parte del “governo del territorio”. Quindi, trattandosi di legislazione concorrente, lo Stato può tuttora stabilire i principi fondamentali e le Regioni possono legiferare nel rispetto di quelli.
In materia di territorio i riferimenti del nuovo testo della Costituzione che abbiamo visto sopra non sono esaustivi. Infatti, rilevanza centrale assume anche la materia dei Beni Culturali ed ambientali, che riguarda peraltro in modo particolare gli usi civici. Il tradizionale riferimento è costituito dall’art. 9 della Costituzione, la cui importanza è enfatizzata dalla sua posizione all’interno dei Principi fondamentali. Ora il nuovo articolo 117 della Costituzione assegna allo Stato la legislazione esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, mentre definisce materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni la “valorizzazione dei beni culturali ed ambientali”. Il codice dei beni culturali e del paesaggio chiarisce la definizione di tutela e di valorizzazione. L’articolo 3 del decreto legislativo 42 del 2004 afferma infatti che “la tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione”. L’articolo 6 invece definisce così la valorizzazione: “La valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale”[14]. Emerge così un nuovo quadro nei rapporti tra Stato e Regione nella materia dei beni culturali ed ambientali, che rileva anche per la disciplina degli usi civici.
Ci sembra siano queste le novità più importanti che incidono sulla materia degli usi civici nella riforma costituzionale del 2001 rispetto al tema del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, che suscita sempre qualche difficoltà tra gli operatori. A questo si può forse aggiungere, per la particolare rilevanza civilistica che assumono molti aspetti degli usi civici (proprietà collettiva, trasformazione dei demani in allodi tramite le procedure descritte nella legge 16 giugno 1927, n.1766, canoni di natura enfiteutica, regime delle nullità degli atti ne sono alcuni esempi) il mantenimento in capo alla legislazione esclusiva dello Stato della materia “ordinamento civile”.
Non c’è dubbio quindi che lo Stato mantiene tuttora ampi margini di competenza legislativa sugli usi civici, e che quindi alle Regioni rimane una competenza di legislazione concorrente, sulla base dei principi definiti nelle leggi statali. Nella realtà tale competenza sui meri principi diviene una competenza di dettaglio, vista l’ampiezza delle norme statali: parliamo comunque di una questione che non riguarda solo gli usi civici, ma un po’ tutte le materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni, che la recente riforma non sembra aver risolto, e la cui definizione è stata finora lasciata in gran parte agli orientamenti della Corte Costituzionale[15].
3.Usi civici e tutela paesistica
Nel tentativo di ricostruzione del rapporto intercorrente tra la materia degli usi civici ed il governo del territorio, riveste un certo interesse un’analisi più dettagliata delle relazioni istituite per legge tra gli usi civici e la tutela paesistica. La ricostruzione può prendere le mosse dall’approvazione del Decreto legge 27 giugno 1985, n.312 , convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1985, n.431, testo di legge divenuto poi famoso con la definizione giornalistica di “legge Galasso”, dal nome del Ministro dei Beni Culturali in carica al momento dell’approvazione del Decreto legge. L’articolo 1 del Decreto legge citato proponeva un vasto elenco di beni sottoposti a vincolo paesistico, attraverso la tecnica legislativa della modifica dell’art. 82 del D.P.R. 24 luglio 1977, n.616. In tale elenco erano inserite anche le aree assegnate alle Università agrarie e le zone gravate da usi civici. La disposizione nella quale era inserita la norma citata era inizialmente l’art. 82, comma 5, lett. h) del Decreto Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616.
Successivamente la stessa disposizione è stata inserita all’art. 146, comma 1, lett. h) del Decreto Legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, mentre l’art. 166 di quest’ ultimo Decreto Legislativo provvedeva ad abrogare l’articolo 82, comma 3 e seguenti del Decreto Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616. Ancora, la disposizione è infine confluita nell’art. 142, comma 1, lett. h) del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137. A sua volta, l’art. 184 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 ha abrogato per intero il Decreto Legislativo 29 ottobre 1999, n. 490.
E’ evidente l’intenzione del legislatore nazionale di prevedere una tutela rafforzata di tali aree, con la previsione di un vincolo paesistico, lasciando alle Regioni poi la normativa di dettaglio. Bisogna sottolineare la valenza che assume per la natura stessa degli usi civici il loro inserimento all’interno dei beni ambientali tutelati: copertura costituzionale della materia usi civici; passaggio ad una concezione di tutela non più legata ad una determinata collettività di originari di un luogo, ma ad una indifferenziata collettività di cittadini, che è considerata la potenziale fruitrice dell’area soggetta ad uso civico, intesa quale bene ambientale tutelato.
Assume centralità per la concreta destinazione dei beni soggetti ad uso civico il piano paesistico regionale. L’intervento del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 , il codice dei beni culturali e del paesaggio, è su questo aspetto piuttosto incisivo. Peraltro il legislatore delegato è ritornato di recente sull’argomento, con un intervento correttivo emanato con il decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157, apportando alcune modifiche a molti aspetti del testo del Codice[16].
Proviamo a riassumere alcuni punti salienti:
a) l’art.143 del codice dei beni culturali e del paesaggio, nella prima versione, descriveva i contenuti dei piani paesaggistici, la cui approvazione è di competenza delle Regioni fin dall’approvazione del decreto legislativo n.8 del 1972, di primo trasferimento delle competenze dallo Stato. Permane però in capo allo Stato l’individuazione dei principi fondamentali dell’assetto del territorio nazionale in riferimento ai valori ambientali con finalità di orientamento della pianificazione paesaggistica. L’art.145 del codice richiama e conferma la vigenza in tal senso dell’articolo 52 del decreto legislativo 112 del 31 marzo 1998. Il decreto legislativo correttivo introduce disposizioni maggiormente in linea con il principio di leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali, dando maggiore spazio al ruolo delle Regioni. Ciò anche a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale dopo la riforma del titolo V della Costituzione. E’ introdotto però l’intervento sostitutivo del ministero in caso di inerzia nell’approvazione del Piano paesaggistico da parte delle Regioni.
b) L’art.156 del codice affermava che, entro quattro anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, le regioni che avevano già redatto i piani paesistici avrebbero dovuto verificare la conformità tra le disposizioni dei predetti piani e le previsioni dell’art.143, ed in difetto, provvedere ai necessari adeguamenti. L’art. 24 del decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157, che ha sostituito per intero l’art. 156 testé richiamato, conferma la data del 1 maggio 2008 per l’adeguamento dei Piani da parte delle regioni. Specifica però che decorso inutilmente il termine, il Ministero provvede in via sostitutiva. Come si diceva sopra, da una parte vengono rese più facili e maggiormente cogenti le intese tra Ministero e Regioni, dall’altra però si conferisce potere sostitutivo al Ministero in caso di inerzia, nello spirito dell’art.120, comma 2 della Costituzione riformata nel 2001.
c) L’art.145 del codice afferma che le previsioni dei piani paesaggistici “sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli strumenti settoriali”. I Comuni sono tenuti ad adeguare gli strumenti urbanistici alle disposizioni del piano paesaggistico entro due anni dall’approvazione di quest’ultimo. Queste disposizioni sono state confermate dal decreto correttivo.
d) L’art.146 del codice disciplina le autorizzazioni, di competenza del Ministero o delle regioni, per gli interventi nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, per legge o per piano paesaggistico. Con alcune modifiche nella procedura, l’articolo è stato nella sostanza confermato dalla novella del 2006.
E’ peraltro da sottolineare che la legge 431 del 1985 introdusse le aree tutelate per legge, con un elenco di categorie di beni, tra le quali anche gli usi civici, come accennato sopra. Ebbene, nel caso in cui il piano paesaggistico regionale non sia intervenuto a disciplinare la materia, e quindi a graduare le fasce di tutela e gli interventi possibili, per le aree elencate ( e quindi anche per le zone gravate da usi civici) non vi è possibilità di intervento senza l’autorizzazione prevista dall’art.146 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
Il problema che si pone nella prassi, per quello che riguarda i piani paesistici già approvati[17] è la mancanza nella cartografia delle aree gravate da uso civico[18]. Ma questo è un po’ il problema dei problemi per quello che riguarda gli usi civici: quello dell’accertamento degli usi civici. Tutto l’impianto della legge, e la previsione della figura del Commissario per la liquidazione degli usi civici lo dimostra, mette al centro il problema dell’accertamento degli usi civici. Per questo non è affatto semplice per un paesaggista trasporre su carta la materia principale d’indagine di un esercito di periti, che peraltro spesso sono contestati da altri periti, che scoprono documenti introvabili in archivi meno noti, che dimostrano l’esistenza di usi civici su aree anche vaste. In ogni caso, è importante dal punto di vista operativo verificare il livello di tutela previsto dai piani paesistici per quello che riguarda gli usi civici, anche se le aree non sono ricomprese nella cartografia. E’ bene sottolineare che questo è un vincolo che si aggiunge alle tutele previste dalla normativa specifica sugli usi civici.
4.Usi civici, parchi ed aree protette
Un regime particolare assumono gli usi civici nei parchi e nelle aree protette, secondo le previsioni della legge quadro sulle aree protette del 6 dicembre 1991, n.394. La legge mira ad una conservazione ed anche ad una valorizzazione degli usi civici, all’interno di una programmazione più generale che spetta all’Ente parco. Gli strumenti più importanti per la programmazione del parco sono il regolamento ed il piano per il parco. L’art. 11 della legge 394 del 1991, che disciplina il regolamento per il parco, al comma 5 si occupa specificamente degli usi civici, stabilendo due principi: a) che i diritti reali e gli usi civici delle collettività locali che sono esercitati secondo le consuetudini locali sono fatti salvi; b) che eventuali diritti esclusivi di caccia delle collettività locali o altri usi civici di prelievi faunistici sono liquidati dal Commissario per la liquidazione degli usi civici ad istanza del parco. E’ da notare che l’attribuzione di una competenza amministrativa al Commissario dopo il trasferimento di competenze alle regioni è stato criticato in dottrina[19], e certo è un segnale in controtendenza nei rapporti tra Commissario e Regioni.
La legge 9 dicembre 1998, n.426 ha inoltre aggiunto un comma 2bis all’articolo 11 citato, disponendo nel senso che il regolamento del parco valorizzi gli usi, i costumi, le consuetudini, le attività tradizionali delle popolazioni, le espressioni culturali proprie dell’identità delle comunità locali, anche mediante disposizioni che autorizzino l’esercizio di attività collegate agli usi.
Anche nella disciplina del piano del parco, contenuta nell’articolo 12 della legge 6 dicembre 1991, n.394, viene affrontato il problema degli usi civici. Si sottolinea l’importanza che la legge attribuisce al piano del parco, sia nel caso di parco nazionale che di parco regionale: esso può infatti derogare e sostituire tutti gli altri strumenti di pianificazione, compresi piani paesistici e piani regolatori generali. Gli usi civici, secondo le prescrizioni dell’art.12, comma 2, lett.c), sono ricompresi nelle aree di protezione, “nelle quali, in armonia con le finalità istitutive ed in conformità ai criteri generali fissati dall’Ente parco, possono continuare, secondo gli usi tradizionali ovvero secondo metodi di agricoltura biologica, le attività agro-silvo-pastorali nonché di pesca e raccolta di prodotti naturali”.
Quindi dal punto di vista operativo, è importante verificare le disposizioni contenute nei piani del parco, sia esso nazionale o regionale, in relazione ai terreni di uso civico, poiché esse sono prevalenti anche rispetto al piano paesistico. In generale, secondo la normativa appena vista, gli usi civici sono tutelati e valorizzati all’interno delle aree protette, con l’esclusione degli usi civici di caccia e di prelievi faunistici, che invece la legge invita a liquidare. E’ bene verificare anche le normative regionali rispetto alle aree protette in generale, ovvero rispetto alla singola area protetta.
5.Usi civici e pianificazione urbanistica
I terreni soggetti ad uso civico sono a vocazione agricola, e pertanto si presume tale la loro destinazione urbanistica: sono escluse quindi destinazioni di tipo edificatorio[20]. Il riferimento normativo per tale destinazione si trova negli articoli 11, 12 e 13 della legge 16 giugno 1927, n.1766, che distingue i terreni di proprietà collettiva in due categorie: a) terreni utilizzabili come bosco o pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria. L’assegnazione a categoria è peraltro una delle principali finalità delle operazioni demaniali. Il mutamento di destinazione d’uso di tali terreni non è possibile senza l’autorizzazione della Regione, anche se il testo della legge riporta ancora il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. Un altro riferimento normativo che afferma quanto sopra descritto è l’articolo 41 del Regio Decreto 26 febbraio 1928, n. 332, il regolamento di esecuzione. Tale articolo prevedeva in via eccezionale la possibilità per i Comuni e le Università agrarie di richiedere il mutamento di destinazione “quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti” per la istituzione di campi sperimentali, vivai, ecc.
E’ chiaro che l’istituto del mutamento di destinazione d’uso dei terreni gravati da uso civico è diventato sempre più importante con l’evoluzione socio-economica del paese, e con il passaggio che abbiamo già evidenziato dell’approccio agli usi civici da una concezione di valorizzazione agricola ad una concezione legata ad una più vasta accezione di governo del territorio. Le leggi regionali in tema di usi civici, ed in particolare quelle della Regione Lazio, si sono infatti in questi ultimi anni particolarmente occupate del legame tra pianificazione urbanistica e mutamento di destinazione d’uso dei terreni.
L’altro aspetto da evidenziare rispetto al rapporto tra pianificazione urbanistica ed usi civici è quanto abbiamo già affermato nel paragrafo precedente in relazione al rapporto tra il piano paesaggistico e il piano regolatore generale. In base all’art. 145 del decreto legislativo 42 del 2004 il Piano regolatore generale deve conformarsi alle disposizioni del piano paesaggistico, e quindi se quest’ultimo contiene delle disposizioni in merito agli usi civici, ovvero nel caso in cui i terreni d’uso civico fossero recepiti nella cartografia del piano paesaggistico, lo strumento urbanistico comunale ne deve tenere conto, ed adeguarsi sia nella cartografia che nelle norme tecniche.
6.Usi civici e condono edilizio
La normativa in tema di condono edilizio fin dal 1985 si è confrontata con i casi di edificazione abusiva su aree soggette ad uso civico. Le premesse per una eventuale edificazione su aree gravate da uso civico erano negative: come abbiamo visto sopra, la legge 16 giugno 1927, n.1766 poneva un sostanziale vincolo di inedificabilità su tali terreni.
La prima versione della legge 28 febbraio 1985 , n. 47 escludeva la possibilità di sanatoria per opere abusive realizzate su beni di uso civico. Solo successivamente, con il decreto legge 12 gennaio 1988, n.2, convertito nella legge 68 del 1988 è stato modificato l’art.32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, relativo alle opere costruite su aree sottoposte a vincolo, nel senso di prevedere la possibilità di concedere la sanatoria edilizia su aree granate da uso civico a due condizioni: a) parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo paesaggistico, Regione e Ministero dei beni culturali ed ambientali, ai sensi dell’allora vigente art.7 della legge 1497 del 1939. L’articolo 1, comma 10 della legge 27 settembre 1997, n.449 ha chiarito che l’amministrazione proposta alla tutela del vincolo, ai fini dell’espressione del parere di propria competenza, deve attenersi esclusivamente alla valutazione dalla compatibilità con lo stato dei luoghi degli interventi per i quali è richiesta la sanatoria, in relazione alle specifiche competenze dell’amministrazione stessa; b) l’ente gestore del bene deve concedere il terreno d’uso civico a titolo oneroso, secondo le procedure di alienazione previste dalla legge 16 giugno 1927, n.1766.
Altre condizioni di natura tecnica erano quelle relative alla limitazione della superficie alienabile, fissata nella superficie occupata dalle costruzioni oggetto della sanatoria, ed alle relative pertinenze, per un massimo di tre volte rispetto all’area coperta dal fabbricato. La determinazione del valore del terreno veniva lasciata alle leggi regionali.
E’ da evidenziare che tali norme, insieme alla normativa regionale in materia, sono ancora attuali ed importanti da conoscere per l’operatore che si trova tutt’oggi alle prese, in moltissimi casi, con richieste di condono edilizio presentate sulla base della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Le stesse considerazioni valgono per quelle presentate sulla base della legge 23 dicembre 1994, n.724, anch’essa di conversione di una serie di decreti legge precedenti. L’articolo 39 della legge 724 del 1994 non interveniva in maniera rilevante sull’art. 32 della legge 47 del 1985, lasciando quindi immutata la procedura di rilascio della sanatoria edilizia in caso di edificazione abusiva su aree gravate da usi civici.
Diverse sono invece le considerazioni da fare rispetto alle richieste di sanatoria relative al cosiddetto “terzo condono”. Anche qui è opportuno ricostruire la sequenza degli interventi normativi. Il Decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella legge 24 novembre 2003, n. 326, non prevedeva modifiche rispetto al quadro finora descritto. L’edificazione abusiva su aree gravate da usi civici era infatti rimasta tra le opere costruite su aree sottoposte a vincolo, con il regime di autorizzazioni sopra descritto. Subito dopo, però con l’art. 4, comma 125 della legge 24 dicembre 2003, n. 350 è stata apportata una modifica di grande rilevanza, che riportiamo: “la lettera g) del comma 27 dell’articolo 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n.269, convertito con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n.326, è sostituita dalla seguente: g) siano state realizzate nei porti e nelle aree appartenenti al demanio marittimo, lacuale e fluviale, nonché nei terreni gravati da diritti di uso civico.”. Tale disposizione ha inserito i terreni gravati da diritti di uso civico nelle opere non suscettibili di sanatoria, per la prima volta nella ormai lunga storia dei condoni edilizi. Pertanto le richieste di condono relative al terzo condono edilizio, quindi alla legge 326 del 2003 e relative modifiche, allo stato attuale non possono essere accolte se ricadono su terreni gravati da diritti di uso civico.
In conclusione, le richieste di condono edilizio su terreni gravati da diritti di uso civico, per usare la definizione della legge 24 dicembre 2003, n. 350, hanno un trattamento diverso dovuto al momento della presentazione della domanda di condono, che mi sembra un’espressione più precisa e dimostrabile rispetto a quella che potrebbe riferirsi al momento della realizzazione dell’abuso. Le domande avanzate ai sensi delle leggi 47/85 e 724/94 sono condonabili alle condizioni sopra previste, mentre non sono suscettibili di sanatoria le richieste avanzate ai sensi della legge 326 del 2003.
7.Usi civici ed espropriazione per pubblica utilità
Altra questione che si pone all’operatore è se sia possibile l’espropriazione di un terreno gravato da uso civico. In linea di principio l’indisponibilità dei beni di uso civico tenderebbe ad escludere la possibilità di espropriazione per pubblica utilità: ed in effetti non vi sono disposizioni di legge che stabiliscono espressamente la possibilità di esproprio di terreni gravati da uso civico. Quindi bisogna rifarsi alle pronunce giurisprudenziali, basate anche su normative speciali. Occorre inoltre premettere che il regime è differente nel caso di terreni privati gravati da uso civico ovvero di beni di proprietà collettiva.
Nel caso di terreni privati gravati da uso civico la tendenza del legislatore in alcune leggi speciali è stata quella di consentire l’espropriazione, trasferendo sulle indennità di espropriazione i diritti dei terzi, compresi i diritti di uso civico. Alcune leggi che utilizzano questa formula sono: la legge 12 maggio 1950, n. 230, sulla colonizzazione dell’Altopiano della Sila; la legge 21 ottobre 1950, n. 841, recante “Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini”; la legge 18 aprile 1962, n. 167, sull’edilizia economica e popolare; la legge 31 gennaio 1994, n.97, cosidetta sulla montagna. La Corte Costituzionale si è pronunciata su alcune di queste leggi[21], fissando alcuni principi che affermano: a) l’espropriabilità dei beni privati gravati da uso civico, nel caso però che sia una legge a prevederlo; b) la non espropriabilità sia del demanio universale, quindi della proprietà collettiva, sia delle quote cedute agli abitanti del comune come liquidazione degli usi civici gravanti sui beni privati.
Nel caso di proprietà collettiva, quindi, l’evoluzione della giurisprudenza ha escluso la possibilità di espropriazione per pubblica utilità. Sembra ribadire tale concetto, anche se con una formula soggetta ad interpretazione rispetto al problema specifico degli usi civici, anche il Decreto del presidente della repubblica 8 giugno 2001, n.327 di approvazione del Testo unico sulle espropriazioni per pubblica utilità. Infatti l’art. 4, comma 1 del D.P.R. 327/2001 afferma: “I beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ve viene pronunciata la sdemanializzazione”. E’ possibile far rientrare le proprietà collettive nel concetto di “demanio pubblico” sopra indicato ? Se questa fosse l’interpretazione giusta, la procedura corretta per l’espropriazione per pubblica utilità sarebbe quella prevista dall’art. 12 della legge 16 giugno 1927, n.1766: l’istituto dell’alienazione di terreni non edificati, ovvero quello del mutamento di destinazione d’uso. E’ importante verificare chi è il soggetto espropriante, ovvero “l’autorità competente alla realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità”, che ai sensi dell’art. 6 del DPR 327/2001 “è anche competente all’emanazione degli atti del procedimento espropriativo che si renda necessario”. Nel caso in cui l’autorità competente sia il Comune, e nel caso in cui esso sia anche gestore delle proprietà collettive, l’istituto più ovvio da applicare sembra quello del mutamento di destinazione d’uso dell’area oggetto di intervento, che prevede la corresponsione di un canone che in questo caso il Comune dovrebbe destinare ad opere permanenti di interesse generale della popolazione, come previsto da alcune leggi regionali, ai fini del ristoro della collettività per la perdita della possibilità di esercizio dei diritti collettivi
Nel caso invece che l’ente gestore sia un’Università agraria, è forse opportuna una procedura di alienazione, con la fissazione di un capitale da versare all’ente gestore, sempre con le finalità sopra descritte, che andrebbe quindi a sostituire l’indennità di espropriazione. E’ ovvio che quest’ultima ipotesi presuppone un accordo tra i diversi enti sull’opera pubblica da realizzare: altrimenti la strada necessaria da percorrere da parte dell’autorità competente all’espropriazione sembra quella di un tentativo di conciliazione, in via amministrativa attraverso l’intervento della Regione ovvero in via giurisdizionale, tramite il Commissario per la liquidazione degli usi civici
BIBLIOGRAFIA
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ARTICOLI E STUDI
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OPERE SULLA REGIONE LAZIO
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[1] Si indicano a titolo esemplificativo: A. M.Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, ed.1984, pag.793 e seg.; V.Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, ed.2002, pag.630; M.S.Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, ed.2000, pag. 615.
[2] L.Fulciniti, I beni d’uso civico, Cedam, Padova, 2000,pag.263.
[3] Confronta in tal senso la sentenza della Corte Costituzionale n.210 del 28 maggio 1987, citata in M.Renzulli, Tutela dell’ambiente e proprietà privata, in www.lexitalia,it.
[4] Commerciabilità dei terreni soggetti ad uso civico, Studio n.777 della Commissione Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, in www.notarlex.it, pag.2
[5] G.Cervati, Ancora dei diritti delle popolazioni, usi e terre civiche e competenze regionali, in: Terre Collettive ed usi civici tra Stato e Regione, Atti del convegno della Regione Lazio, Fiuggi 25-26-27 ottobre 1985, cit., pag.62
[6] V.Cerulli Irelli, Terre Collettive ed usi civici tra Stato e Regione , in: Terre Collettive ed usi civici tra Stato e Regione, Atti del convegno della Regione Lazio, Fiuggi 25-26-27 ottobre 1985, cit., pag.11
[7] V.Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Cedam, Padova, 1983, pag.265
[8] Così Petronio, voce Usi Civici, Enc.Diritto, Vol.XLV, 1992, pag.952, rinvio ripreso da: Commerciabilità dei terreni soggetti ad uso civico, cit., pag.8
[9] V.Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., pag.383
[10] V.Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., pag.212
[11] Su questo specifico argomento confronta: A.Benedetti, M.L. Messeri, Guida agli usi civici, ed.Dei-Tipografia del Genio Civile, Roma, 1991, pag. 75 e seguenti
[12] Una ricerca su questa operazione nell’ambito territoriale della Regione Lazio è: Regione Lazio, Assessorato Cultura Spettacolo Sport e Turismo, Centro regionale per la documentazione dei beni culturali e ambientali, Le Denunce, una fonte documentaria per lo studio dei diritti civici e delle proprietà collettive, a cura di C.Zannella, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2001
[13] Per un approfondimento di questo aspetto si rinvia a: AA.VV., Guida Normativa per gli enti locali 2006, EDK editore, 2006, pag.1831 e seg.
[14] Confronta sull’argomento: AA.VV. Il codice dei beni culturali e del paesaggio:pianificazione territoriale e nuovi condoni, in www.lexambiente.it
[15] Confronta B.Caravita di Toritto, Lineamenti di diritto costituzionale federale e regionale,Torino, Giappichelli, 2006
[16] Confronta sul decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157: A.Borzì, La disciplina della tutela e della valorizzazione del paesaggio alla luce del D.Lgs. n.157 del 2006 e della recente giurisprudenza costituzionale , in www.federalismi.it
[17] Vedi per la Regione Lazio la legge regionale n. 24 del 1998, che ha approvato i piani paesistici divisi per sub-ambiti, la cui procedura di approvazione era iniziata nel 1986. Attualmente è in corso l’approvazione del nuovo Piano Paesistico Regionale, che è stato adottato dalla Giunta regionale il 26 luglio 2007
[18] “La presenza dei beni d’uso civico nei piani paesistici in forma cartografica non sempre compare. Compare invece l’astratta previsione della normativa d’uso. La desolante circostanza rimarca due rilevanti problemi e compiti del paesaggista: 1) l’identificazione dell’area in base allo speciale regime giuridico dell’appartenenza; 2) la localizzazione dell’area. Entrambe le operazioni sono di non facile attuazione.”, L.Fulciniti, I beni d’uso civico, Padova, Cedam, 2000, pag.269
[19] L.Fulciniti, I beni d’uso civico, cit., pag.276.
[20] Si rinvia per un approfondimento a: L.Fulciniti, I beni d’uso civico, cit., pag.280 e seg.
[21] Sentenze n.67 del 1957; n.78 del 1961; n.18 del 1965; n.99 del 1969; n.193 del 1970. Vedi per un approfondimento L.Fulciniti, I beni d’uso civico, cit., pag.284 e seg..

Moreschini Ivano

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