Affinché il possesso possa implicare acquisto della proprietà (o di altro diritto reale) è necessario, peraltro, che lo stesso presenti determinate caratteristiche e, precisamente, che esso possa definirsi pacifico (non violento), pubblico (non clandestino), continuo e non interrotto; non è, invece, necessario che il possesso medesimo rivesta le caratteristiche del c.d. possesso in buona fede, giacché anche il possesso in mala fede è idoneo a fondare l’usucapione del bene eventualmente posseduto: così, ad esempio, la giurisprudenza potrà tranquillamente affermare l’avvenuta usucapione di un immobile ereditato dallo Stato e poi occupato dal privato, proprio sulla base dell’assunto secondo cui l’acquisto ex art. 1158 c.c. prescinde dalla buona fede del possessore, in quanto, ciò che conta, è che quest’ultimo mostri pubblicamente di voler assoggettare l’immobile al proprio potere, senza che sia necessaria l’effettiva conoscenza del preteso danneggiato; è sufficiente, dunque, il solo possesso pubblico dell’immobile, oltre al decorso dei vent’anni prescritti dalla disposizione codicistica, a far scattare l’acquisto per usucapione del bene, non assumendo rilievo che il proprietario ne fosse o meno a conoscenza, né rilevando le ragioni della sua inerzia; recente, a tal proposito, Trib. Pisa, 6 luglio 2015, proprio nel senso che, in tema di usucapione, l’animus possidendi necessario all’acquisto della proprietà a tale titolo non consiste nella convinzione di essere proprietario, ma nell’intenzione di comportarsi come tale esercitando le corrispondenti facoltà, non essendo la buona fede requisito del possesso utile all’usucapione: ne consegue, conclude la pronuncia, che la consapevolezza di possedere senza titolo e l’attività negoziale diretta ad ottenere il trasferimento della proprietà
“non escludono che il possesso sia idoneo all’acquisto per usucapione” (Trib. Pisa, 6 luglio 2015).
Il requisito della continuità del possesso
Quanto al requisito della c.d. continuità del possesso, inteso quale esercizio (sulla cosa), per tutto il tempo previsto dalla legge, di un potere corrispondente a quello del proprietario (o del titolare di un diritto reale), v’è da dire, innanzitutto, che esso riguarda non il comportamento del proprietario (com’è, invece, per l’interruzione), bensì esclusivamente quello del possessore: ai fini della continuità del possesso, necessaria per l’acquisto a titolo di usucapione, dunque, quel che rileva è il comportamento del possessore, non già la volontà contraria del proprietario.
La continuità del possesso è da valutarsi in relazione alla natura del bene posseduto, con ciò non restando esclusa da intermittenze ontologicamente connesse con l’utilizzo proprio del bene; si pensi, ad esempio, al possesso di un fondo boschivo (come nel caso di terreno boschivo utilizzato soprattutto mediante taglio di legname) ovvero di un parcheggio (nel caso di non utilizzazione di un’area di parcheggio durante la circolazione dei veicoli, infatti, l’intermittenza dei relativi atti di godimento non esclude, in sé, la persistenza del potere di fatto sulla cosa).
Il difetto di continuità del possesso, che può essere rilevata d’ufficio, qualora risulti ex actis, può conseguire alla rinunzia – anche tacita, potendo la stessa esser liberamente effettuata – dell’azione a difesa del diritto d’usucapire, purché, peraltro, detta rinuncia sia espressa in maniera non equivoca: infatti, colui che ha acquistato per usucapione un bene immobile è libero di rinunziare, anche tacitamente – cioè senza la necessità di un atto scritto ad substantiam – alla azione a difesa di tale diritto (nella pronuncia che segue, ad esempio, in applicazione del riferito principio la Suprema Corte ha cassato la sentenza del giudice di appello che, pur in presenza di un giudizio favorevole alla tesi del ricorrente, espresso dal giudice di primo grado, aveva totalmente omesso di motivare la conclusione raggiunta sulla base delle argomentazioni difensive della parte attrice in primo grado); la rinuncia, tuttavia, risolvendosi in un atto che viene a incidere sulla tutela del possesso, interrompendo il requisito della continuità, necessario ai fini della tutela giudiziaria del relativo diritto, deve essere espressa in maniera non equivoca,
“tenendo conto di tutti gli elementi posti a sostegno delle rispettive tesi e, soprattutto, del comportamento delle parti” (Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2010, n. 3446).
In effetti, in tema di usucapione, vige la presunzione, posta dall’art. 1142 c.c., della continuità del possesso e, pertanto, si determina un’inversione dell’onere della prova, non essendo il possessore, sia che agisca come attore o che resista come convenuto, tenuto a dimostrare la continuità del possesso, ma è onere della controparte che neghi essersi verificata l’usucapione, provare l’intervenuta interruzione; peraltro, ove il difetto della continuità del possesso risulti ex actis dalla produzione della parte che quella continuità invochi, il giudice, anche se l’interruzione non sia stata dedotta dalla controparte – e pur in contumacia della stessa –, deve rigettare la domanda o l’eccezione, giacché, in tal caso, non giudica ultrapetita in violazione dell’art. 112 c.p.c. – rilevando, cioè, un fatto che avrebbe dovuto essere eccepito ad iniziativa della controparte –, bensì si limita a constatare il difetto, risultante dagli atti del giudizio fornitigli dalla parte interessata, di una delle condizioni necessarie all’accoglimento della domanda o dell’eccezione.
In giurisprudenza, recentemente Cass. civ., sez. II, 18 ottobre 2016, n. 21015, ha confermato che, in tema di possesso ad usucapionem, il requisito della pacificità del possesso medesimo non può essere escluso per la sola circostanza che il preteso titolare del diritto manifesti una volontà contraria all’altrui possesso, trattandosi di elemento rilevante al diverso fine di evidenziare la mala fede del possessore sicché, anche ai fini della continuità del possesso, necessaria per l’acquisto a titolo di usucapione, quel che rileva è
“il comportamento del possessore, non già la volontà contraria del proprietario” (Cass. civ., sez. II, 18 ottobre 2016, n. 21015).
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