Verso la “class-action”: il vero, il falso e l’improbabile

Come è ormai noto, la legge Finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007, n. 224) ha introdotto nell’ordinamento italiano una forma di azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori che oggi ritroviamo nell’articolo 140-bis del Codice del Consumo.
Forse perché lungamente attesa, questa iniziativa è attualmente oggetto di un ampio dibattito dottrinale ed anche i mezzi di informazione non mancano di anticipare i futuri scenari (sarà esperibile a partire dal 30 giugno 2008). Nella maggior parte dei casi, però, è pura disinformazione: se stessimo parlando di un prodotto commerciale, le esagerazioni di alcune notizie riportate in questi giorni sulla cosiddetta “class-action”, sarebbero paragonabili alla pubblicità ingannevole. Insomma quasi una sorta di “inganno collettivo” (a cominciare dalla stessa denominazione di “class action”).
E’ bene provare a fare un po’ di chiarezza per evitare che le conseguenze di questi fraintendimenti ricadano proprio sulle Associazioni di consumatori, primi soggetti legittimati ad agire in via collettiva.
Cominciamo dalle cose vere. Alle organizzazioni dei consumatori deve riconoscersi la paternità morale della riforma, per aver sollecitato la riflessione su uno strumento, pur così lontano dalla nostra cultura giuridica. Guardando alle origini di questo lungo percorso, la memoria risale a quando, nel 2003 il Governo intervenne a modificare il giudizio secondo equità e l’art. 113 del Codice di procedura civile per arrestare la pioggia di ricorsi scatenata dalla condanna che l’Autorità Antitrust inflisse alle compagnie di assicurazione dopo aver smascherato il “cartello” realizzato in danno degli utenti. In quell’occasione l’esecutivo si impegnò a mettere all’ordine del giorno la previsione di idonei strumenti di tutela collettiva. Il clamore degli scandali finanziari diede poi una spinta decisiva ed ecco perché oggi ritroviamo l’azione collettiva nel Codice del consumo.
A fronte di questo impegno devo dire che, nell’elaborazione del testo di legge, le proposte delle stesse Associazioni dei consumatori non sono state tenute in gran considerazione: questo è bene che si sappia perché le inefficienze del procedimento non ricadano sui soggetti che saranno costretti ad utilizzare uno strumentario parzialmente farraginoso.
Insomma, non vorremmo (almeno noi dell’Unione Nazionale Consumatori) essere scambiati per involontari testimonial di questa class-action all’italiana: verremmo meno al nostro ruolo se contribuissimo a promuovere un bene o un servizio presentandolo per quello che non è. Siamo onesti: il progetto che oggi è diventato legge dello Stato non sembra idoneo a svolgere la funzione per la quale è stato fortemente voluto: riequilibrare la posizione di debolezza del consumatore ogniqualvolta, e l’osservazione della realtà dimostra che accade sempre più frequentemente, egli patisce la lesione di un diritto di scarso valore economico. Per poche decine o centinaia di euro il cittadino rinuncia a difendersi, si limita forse alla sterile protesta, ma non è motivato a rivolgersi al Giudice per la ben nota (e giustificata) sfiducia che egli nutre nel sistema processuale.
L’introduzione della tutela collettiva nel nostro sistema avrebbe dovuto avere la funzione di rimediare all’antieconomicità di alcune azioni che non vengono intraprese perché non convenienti per il cittadino. L’attuale art. 140-bis del Codice del consumo non risolve questa difficoltà, né sembra poter materializzare gli altri vantaggi generalmente connessi all’azione collettiva e cioè quello di eliminare eventuali pronunce giudiziali discordanti, di deflazionare il sistema giustizia ed in ultimo, il più importante, di esercitare un’efficacia deterrente nei confronti dell’imprenditore disonesto.
Per comprendere la reale valenza di un’azione collettiva si deve dare risposta a tre interrogativi: chi può azionarla, contro chi può essere azionata, per quali situazioni può essere azionata. In nessun caso la risposta data dall’attuale legge può dirsi soddisfacente.
Quanto al novero dei soggetti che possono avviare un’azione collettiva (chi può azionarla), devo ricordare che le Associazioni dei consumatori non erano pregiudizialmente contrarie a condividere questa responsabilità con altri soggetti di tutela degli interessi diffusi. Tuttavia la legittimazione oggi riconosciuta a qualunque associazione (anche fondata ad hoc)e persino a qualsiasi comitato spontaneo di cittadini porta con sé il rischio, ben noto ai consumeristi d’oltreoceano, di azioni collusive che, sebbene sottoposte al vaglio preliminare di un giudice, rischiano di creare un clima di sfiducia, di complicare l’individuazione dei soggetti cui rivolgersi e, per altro verso, di moltiplicare le azioni non “certificate”.
Per quanto attiene ai soggetti destinatari dell’azione collettiva (contro chi può essere azionata), resta inspiegabile la scelta di individuare solo nell’impresa commerciale il possibile convenuto del processo collettivo. Non si comprende perché escludere proprio quelle pubbliche amministrazioni (ed anche i singoli amministratori) che, le cronache ce lo ricordano ogni giorno, sono spesso artefici dei cosiddetti mass torts, cioè di lesioni e danni le cui conseguenze ricadono sulla generalità dei consociati (forse non dovrei stupirmi del fatto che proprio lo Stato abbia deciso di mandare indenne se stesso, come avrebbe fatto la più efficiente tra le lobbies.
Resta, infine, la domanda riguardante le situazioni ove è possibile ricorrere alla class-action (quando si può fare), che trova una risposta anch’essa deludente. L’ambito di operatività dell’azione di classe è esageratamente contenuto: esso non si estende a tutti i rapporti di consumo, ma solo a quelli a quelli in forma scritta e negoziati su moduli prestampati. Ma i contratti di massa non sempre hanno queste caratteristiche: pensiamo ai contratti di trasporto (alla Stazione ferroviaria acquisto un biglietto senza firmare un contratto scritto) e a tutti gli altri contratti verbali ai quali non si potrà applicare l’azione collettiva risarcitoria.
Ho descritto fin qui (seppur per sommi capi) alcune delle più significative inefficienze dell’art. 140-bis del Codice del consumo, ma ho ancora davanti a me le due questioni cruciali: come si partecipa all’azione collettiva e quanto tempo occorre per venirne a capo. Sono due temi strategici e vale la pena di illustrarne, seppur sinteticamente, il peso.
Il tema della partecipazione dei cittadini all’azione è, se vogliamo, la principale giustificazione dell’utilità di un simile strumentario: non richiedendo a ciascuno di attivarsi in proprio, si riducono le conseguenze negative connesse alla generale ritrosia dei consumatori. D’altro lato, quanto più il procedimento sarà breve, tanto più invoglierà i cittadini a partecipare. Più cresceranno questi fattori, maggiore sarà la forza deterrente contenuta nella minaccia di un’azione collettiva.
Quanto all’adesione, la legge italiana impone una preventiva manifestazione di volontà ad opera dei soggetti interessati: per quanto informale, si tratta comunque di una comunicazione che dovrà avere forma scritta e data certa. Si tratta quindi di un’azione “di gruppo” e non “di classe” (ecco svelata un’altra significativa ingannevolezza) non idonea a risolvere l’ostacolo dato dalla scarsa inclinazione dei cittadini a rivolgersi al giudice e quella loro passività rispetto alle prepotenze del mondo imprenditoriale.
Ma quanto durerà il processo? Molti anni, se consideriamo i tre gradi di giudizio e le due fasi necessarie a concluderlo (un processo per la condanna generica dell’impresa, un altro per quantificare il risarcimento spettante a ciascun consumatore). Sulla durata del giudizio pesano, ancora una volta, alcune scelte sbagliate del legislatore, a cominciare dalla previsione del c.d. “filtro giudiziale” sull’ammissibilità dell’azione, inutile precauzione ed esageratamente macchinoso.
Ma il bello arriva quando (e se) il Giudice deciderà finalmente di accogliere la domanda dei consumatori: questi saranno costretti (se l’azienda condannata non vorrà collaborare) ad avviare un nuovo processo per vedere materializzato, in capo a ciascuno, il risarcimento del danno.
E’ falso affermare che il procedimento collettivo comporterà una tutela più rapida per le singole posizioni lese dalla condotta del professionista scorretto.
Per convincersene basterà osservare che il Giudice pronuncerà non una condanna al risarcimento del danno, ma una sentenza di mero accertamento che, solo qualora ne sussistano i presupposti, potrà individuare la somma minima spettante ai singoli consumatori. Questi dovranno avviare un ulteriore processo per vedere materializzato, in capo a ciascuno, il risarcimento o la restituzione di somme. Si tratta di un processo che potrà percorrere anch’esso, come detto, i tre gradi di giudizio ed una tempistica di poco inferiore a quella della causa in via collettiva.
Tale secondo processo potrebbe essere evitato se l’azienda intendesse collaborare con i consumatori danneggiati. La legge prevede, infatti, che nei 60 giorni successivi l’impresa possa proporre il pagamento di una somma, ma è facile immaginare che, a meno di situazioni contenute numericamente, tale offerta non verrà proposta o verrà proposta in misura incongrua. In questo caso, il risarcimento spettante a ciascuno è rimesso ad una farraginosa procedura di conciliazione: così la chiama il legislatore inventando un percorso conciliativo a valle di una sentenza di condanna!
Viene da chiedersi che senso abbia una conciliazione post-causam, avendo l’azienda già incamerato una condanna per una pratica scorretta.
Le considerazioni fin qui svolte mi inducono a riflettere su quel che sarà se se l’azione collettiva non funzionerà: una nuova sfiducia dei cittadini negli strumenti di tutela, un raffreddamento della magistratura togata che già in passato ha molto faticato per aprire la strada alle istanze di tutela dei consumatori. L’azione collettiva si ridurrà allo strumento di pubblicità per alcuni, forse anche per qualche associazione dei consumatori che vive abitualmente di effetto annuncio, forse potrà rappresentare un’occasione di carriera politica per altri.
Certo uno scenario non paragonabile a quella nuova era che secondo alcuni superficiali giudizi sarebbe stata inaugurata grazie al provvedimento inserito nell’ultima finanziaria. Ciò non vuol dire tuttavia, visto che siamo al cospetto di una legge dello Stato, che non cercheremo di farla funzionare: da parte nostra guarderemo alle azioni collettive come ad una nuova opportunità provando a valorizzarne ciò che può essere tenuto nella migliore condizione.
Lo stesso Ralph Nader, del resto, in un convegno organizzato dall’Unione Nazionale Consumatori in occasione della consegna dei premi “Vincenzo Dona”, ci ha esortato a partire con il piede giusto. Lui che meglio di chiunque altro conosce, anche per averne vissuto la fase regressiva, le potenzialità dell’azione collettiva, ci ha spiegato che dovremo individuare, se sarà possibile, un bersaglio agevole per cercare di impattare positivamente con le nuove norme.
Di improbabile c’è che tutto resti come prima: l’art. 140-bis ha una valenza culturale che non potrà essere sottovalutata. La class-action insegna che il singolo può mettere da parte se stesso per diventare un gruppo ed è un insegnamento che spero facciano proprio le stesse associazioni dei consumatori, inaugurando azioni collettive patrocinate “a più mani”, cioè da gruppi di associazioni. Socializzare le forze può essere una strategia vincente proprio alla luce delle difficoltà che sono andato enunciando.
Fra le cose buone che speriamo scaturiscano dalla legge recentemente approvata indico la speranza di un effetto deterrente nei confronti dei grandi gruppi aziendali che, avendo a cuore la propria immagine, ci eviteranno forse le estenuanti lungaggini di un processo, improntando il loro operato ad una maggiore lealtà verso i cittadini.
 
Massimiliano Dona, segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori (consumatori.it)
 

Dona Massimiliano

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