L’accordo pre-matrimoniale è spesso frettolosamente considerato come un istituto giuridico di common law, totalmente incompatibile con il nostro ordinamento e la nostra cultura.
Tale convinzione, però, a seguito di una recentissima sentenza della I sezione della Cassazione (23713/2012), inizia pesantemente a vacillare.
Infatti, con la suddetta decisione, gli ermellini hanno statuito che sono validi i contratti pre-matrimoniali con cui si stabilisce che, in caso di divorzio, un immobile venga trasferito all’altro coniuge.
La Cassazione è giunta a tale conclusione dopo aver avuto cognizione di un caso in cui una coppia, poco prima di convolare a nozze, aveva stabilito anticipatamente cosa fare in caso di fallimento del matrimonio.
Nel caso di specie, la coniuge si era impegnata a trasferire al marito la proprietà di un immobile, come contropartita delle ingenti spese da lui sostenute per la ristrutturazione di un immobile di proprietà della donna adibito a casa coniugale; altresì, quest’ultimo si era impegnato a versare alla moglie la cifra di € 10.000,00.
A seguito della separazione però, la donna si rifiutò di dare esecuzione al predetto accordo, motivo per cui il marito la citò in giudizio, al fine di ottenere l’esecuzione forzata in forma specifica dello stesso.
Alla prefata richiesta si oppose la moglie, eccependo l’illegittimità dell’accordo prematrimoniale perché in contrasto con l’art. 160 c.c, relativo ai diritti e ai doveri connessi al vincolo matrimoniale.
La Cassazione però, confermando quanto deciso dalla Corte d’Appello investita del caso, ha sancito la legittimità dell’accordo, specificando che se in passato essa aveva dichiarato nulli alcuni accordi prematrimoniali, ciò era accaduto solo perché essi si ponevano in netto contrasto con i principi di ordine pubblico di “indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio”.
Ciò detto, occorre chiarire che a differenza di quanto sostenuto da qualche frettoloso commentatore, questa sentenza non da assolutamente luogo ad uno sdoganamento totale degli accordi pre-matrimoniali.
Infatti, la Corte ha semplicemente ribadito il principio secondo cui si debbono considerare illeciti soltanto quegli accordi che contravvengono al principio di indisponibilità e dell’assegno di divorzio; totalmente diverso il caso in cui, l’accordo riguardi la regolamentazione di rapporti di dare e avere, che nell’ambito dell’autonomia delle parti, restano validi pur essendo connessi ad un rapporto matrimoniale.
Il Supremo Collegio, pertanto, ha imposto alla donna, soccombente in giudizio, di trasferire l’immobile al suo ex marito, così come stabilito con la scrittura pre-matrimoniale, essendo la stessa “un modo come un altro per prevedere contrattualmente le modalità attraverso le quali stabilire un equilibrio nei rapporti economici tra gli ex coniugi”.
Come specificato sopra, però, la predetta sentenza non può in alcun modo essere considerata nomofilattica e quindi suppletiva dell’operato del legislatore, che ignora totalmente ogni ipotesi di accordo pre-matrimoniale.
Il prefato vuoto normativo si fonda sulla concezione sostanzialmente pubblicistica che il nostro ordinamento ha dell’istituto matrimoniale; infatti, in paesi come gli Stati Uniti, dove i c.d. prenuntial agreements hanno valore giuridico dai primi anni ’70, vige un’impostazione molto liberale dei rapporti di diritto privato, secondo cui anche quelli di natura familiare sono contrattualizzabili e, pertanto, nella piena disponibilità dei nubendi.
L’accennata concezione pubblicistica della famiglia e del matrimonio, che risale alle origini del nostro sistema civilistico, è stata in parte superata con la riforma del maggio ‘75. Con essa si è posto rimedio alla contrapposizione tra autonomia privata e tutela della parte debole che aveva fino ad allora caratterizzato la visione italiana del diritto di famiglia e di società in generale.
Tale risultato era però limitato alla scelta del regime patrimoniale da adottare durante il matrimonio, mentre permane(va), come la successiva giurisprudenza avrebbe dimostrato, una netta preclusione circa la negoziabilità delle condizioni di separazione e divorzio. Prima della sentenza in oggetto, La Cassazione, con varie decisioni emesse a partire dall’inizio degli anni ’80, ha escluso la validità di qualsiasi accordo preventivo volto a determinare le conseguenze patrimoniali di un successivo eventuale divorzio, sulla base del rilievo che tali accordi determinano un commercio di status ed incidono su diritti, come quello all’assegno di divorzio, posti a tutela di interessi pubblici, come tali considerati indisponibili.
Con la sentenza n. 3777 del 1981, in particolare, la Cassazione, ha asserito che la ragione della nullità degli accordi preventivi in vista del divorzio risiede nel fatto che essi condizionano la volontà del coniuge distogliendolo dal contestare la domanda di divorzio e influenzando così le sue scelte personali in tema di status. A questi argomenti la dottrina ha sollevato giuste eccezioni: i) per quanto attiene al “commercio di status”, esso si verificherebbe allorquando un coniuge si obbligasse tramite accordo a presentare domanda di separazione, di divorzio o di annullamento del matrimonio, o a rinunziare a tali domande, e non in caso di mera regolazione preventiva degli effetti della crisi coniugale; ii) per quanto riguarda il carattere indisponibile dell’assegno di divorzio, con riferimento soprattutto alla sua natura assistenziale, si è sostenuto che gli argomenti utilizzabili per l’obbligazione alimentare non sono estensibili all’assegno di divorzio, che non ha come presupposto uno stato di bisogno dell’avente diritto, ma è rivolto a garantire a quest’ultimo un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Con queste obiezioni la dottrina ha tentato di legittimare l’efficacia dei prenuptial agreements nell’ordinamento italiano, la quale invece, finora era totalmente negata dalla giurisprudenza.
Allo stato delle cose, appare ineludibile un intervento del legislatore che introduca una disciplina degli accordi pre-matrimoniali, tenendo a presente che a colmare l’inerzia legislativa non può essere sufficiente una sentenza, per quanto rilevante ed innovativa, di una sezione semplice della Cassazione.
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