Violazione delle regole del “Giusto Processo” tra Corte Europea e Giudice Italiano.

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Cassazione Penale, Sez. Iª, 3.10.2005 (udienza 22.9.2005), n. 35616 – Pres. Silvestri – Rel. Piraccini – C. B. – RV. 232115.
 
Diritto internazionale – Trattati e Convenzioni internazionali – Corte europea di Strasburgo – Accertamento di violazione degli articoli 5 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – Giudicato penale – Esecuzione della pena – Effetti e conseguenze – Annullamento con rinvio.
«In presenza di una decisione della Corte di Strasburgo che, accertata la violazione dell’art. 6 CEDU nello svolgimento in contumacia di un processo, ritenga che la carcerazione del condannato conseguente a giudicato si stia eseguendo in violazione dell’art. 5, comma secondo, lett. a, della Convenzione, il giudice non può dichiarare “de plano” (art. 666, comma secondo, cod. proc. pen.) inammissibile la richiesta di annullamento dell’ordine di esecuzione, senza aver prima valutato, nel contraddittorio tra le parti, se sussista nell’ordinamento interno la possibilità di immediata applicazione della decisione della Corte di Strasburgo, ritenendola preclusiva dell’esecuzione di una sentenza di condanna emessa a conclusione di un processo giudicato “non equo”, pure in assenza nell’ordinamento nazionale di una norma “ad hoc” che consenta di sospendere l’esecuzione e dare ingresso a un nuovo processo».
 
(Legge 4.8.1955, n. 848, art. 5, comma 2 lett. a, Legge 4.8.1955, n. 848, art. 6, Cod. proc. pen. art. 666, comma 2, Cod. proc. pen. art. 696)
 
La tematica in esame richiede una breve premessa in materia di incidente di esecuzione.
L’art. 666, secondo comma, cod. proc. pen. attribuisce al presidente del tribunale il potere di dichiarare inammissibile la richiesta presentata dall’interessato, dal suo difensore o dal PM nel caso in cui la stessa appaia «manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge»., che riguarda per l’appunto la disciplina del procedimento di esecuzione delle pene,
Alla luce di tale disposizione ogniqualvolta difettano le dette condizioni di legge, da intendere “come quei requisiti che non implicano alcuna valutazione discrezionale, ma sono posti direttamente dalla legge”, rientra nei poteri del presidente dichiarare l’inammissibilità della richiesta diretta ad incidere sull’esecuzione della pena con provvedimento “de plano”.
Si tratta, nella specie, di un provvedimento emesso in assenza di contraddittorio, dal momento che è possibile rilevare già “ictu oculi”, alla semplice prospettazione e senza uno specifico approfondimento, la mancanza di fondamento dell’istanza.
Qualora, invero, sia necessario valutare da parte del giudice il particolare “thema probandum” che sostanzia la richiesta dell’interessato, che per la sua complessità richiede di essere affrontato garantendo all’interessato la possibilità di interloquire, non può non procedersi alla instaurazione del contraddittorio in seno al procedimento camerale previsto dal medesimo art. 666 cod. proc. pen..
Nel caso specifico un soggetto, C. B., è stato condannato alla pena di ventiquattro anni di reclusione per omicidio, tentato omicidio e rapina con sentenza divenuta definitiva dopo che il relativo giudizio è approdato per la seconda volta in Cassazione (dopo un giudizio di rinvio).
È successo che il giudizio di rinvio dalla Cassazione dinanzi alla Corte di Assise di Appello si è svolto nella contumacia di C. B., il quale in verità era impossibilitato a comparire perché detenuto per altro motivo in Belgio. In altri termini non è stato garantito all’imputato il diritto di intervenire e difendersi personalmente dinanzi all’autorità procedente che poi malauguratamente lo ha condannato. Ciò è stato anche motivo di ricorso per cassazione, ma non è stato ritenuto meritevole di accoglimento.
Da qui arriviamo all’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, su ricorso dell’imputato, per quanto detto ha riconosciuto la violazione dell’art. 6, paragrafi 1 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) perché non è stato garantito al ricorrente il diritto di difendersi personalmente oltre che secondo le regole del “giusto processo”.
Ciò posto, in sede di esecuzione della sentenza di condanna a ventiquattro anni di reclusione veniva proposto incidente d’esecuzione dalla difesa del C. B. proprio perché alla luce della richiamata decisione della Corte europea l’ordine d’esecuzione era da ritenere invalido e la relativa condanna ineseguibile.
La Corte di Assise di Appello con procedura “de plano” respingeva l’istanza rilevando in primo luogo che si era già formato il giudicato e poi che non era possibile eliminare gli effetti di questo anche a seguito dell’accertamento operato dalla Corte europea secondo cui la relativa sentenza di condanna risultava pronunciata in violazione degli obblighi sanciti dalla Cedu. Purtuttavia, la Corte d’Assise riteneva detto accertamento bastevole per riconoscere al condannato il diritto ad un equo indennizzo.
A questo punto avverso tale decisione C. B. ricorreva in Cassazione e la Suprema Corte concludeva come nella massima su riportata, in sostanza «il giudice non può dichiarare “de plano” inammissibile la richiesta di annullamento dell’ordine di esecuzione, senza aver prima valutato, nel contraddittorio tra le parti, se sussista nell’ordinamento interno la possibilità di immediata applicazione della decisione della Corte di Strasburgo, ritenendola preclusiva dell’esecuzione di una sentenza di condanna emessa a conclusione di un processo giudicato “non equo”».
Si tratta nella specie di annullamento dell’ordinanza con rinvio alla Corte di Assise di Appello per un nuovo esame in contraddittorio del precedente incidente di esecuzione, esame che non potrà prescindere da due passaggi logico-giuridici indicati dal Supremo Collegio: 1) le norme della Cedu sono vigenti nell’ordinamento italiano (Corte cost. 19 gennaio 1993, n. 10) e devono essere applicate dal giudice italiano (Cass., Sez. Unite, 23 novembre 1988, Polo, rv. 181288); 2) occorre stabilire se la disposizione di cui all’art. 5, comma 2, lett. a) della Cedu, secondo cui «nessuno può essere privato della libertà salvo che nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge … se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente», precluda l’esecuzione nell’ordinamento italiano di una sentenza di condanna emessa a conclusione di un processo giudicato “non equo” dalla Corte di giustizia a norma dell’art. 6 della Cedu, ovvero se, in assenza di un apposito rimedio previsto dall’ordinamento interno, debba comunque prevalere il giudicato.
Nel nostro ordinamento allo stato attuale non esiste un rimedio cd. “ad hoc”, se non come disegno di legge (S/3354, presentato il 3 maggio 2005) recante una modifica dell’art. 630 cod. proc. pen. (casi di revisione) ove si consente la revisione anche in caso di violazione delle regole del “giusto processo” accertata dalla Corte europea – come nel caso in esame.
Pertanto, le uniche certezze che dovranno essere tenute nella debita considerazione dal giudice del rinvio sono la vigenza delle norme della Cedu e la loro diretta applicazione nel nostro ordinamento. In particolare, le norme degli articoli 5 e 6 della Convenzione sembrano essere sufficientemente puntualizzate, e pertanto potrebbero ritenersi di immediata applicazione nel nostro Paese, specie ove si consideri la rilevanza dei diritti da queste riconosciute anche in seno al nostro stesso ordinamento, che prevede equivalenti diritti di rilevanza costituzionale, argomentando dalla Cass., Sez. Unite, sent. n. 15, 8.5.1989, Polo. 
Non pare poi ragionevole, oltre che opportuno sul piano internazionale per l’Italia, data peraltro la pacifica rilevanza della Cedu e della Corte europea, che si possa dare esecuzione alla sentenza di condanna pronunciata nei confronti di C. B. sul solo presupposto che c’è un giudicato, dal momento che così facendo si disconoscerebbe la prevalenza delle norme della Cedu sulle norme interne in contrasto con queste.
È significativo, però, che il contrasto nasce essenzialmente con un provvedimento giurisdizionale irrevocabile che attende di essere eseguito nel rispetto delle norme processuali del nostro ordinamento. È del pari rilevante il fatto che già nel secondo ricorso per cassazione presentato dal condannato C. B. avverso la sentenza di condanna si lamentava il mancato rispetto delle norme sulla contumacia, come specifico motivo di annullamento, doglianza che invero non è stata ritenuta meritevole di accoglimento. Quindi, l’invocata violazione delle norme del “giusto processo” nel nostro sistema non è stata riconosciuta, pur essendo stata oggetto di esame da parte dell’autorità giurisdizionale nazionale. A ciò è seguita l’irrevocabilità della sentenza di condanna.  
Certamente, nel caso specifico si tratta di un soggetto che, soprattutto dopo l’accertamento della violazione della Cedu da parte della Corte europea, rimane gravemente esposto alle conseguenze negative di un provvedimento giurisdizionale del giudice italiano in contrasto con la medesima Convenzione: l’esecuzione della pena. E per tollerare ciò non basta il solo riconoscimento del diritto ad un’equa riparazione, che dovrebbe mantenere pur sempre un carattere di accessorietà. Si rammenta, infatti, che la Corte d’Assise di Appello aveva precedentemente rigettato l’istanza “de qua” anche perché la violazione delle norme della Cedu consentirebbe solo tale riconoscimento: un’equa soddisfazione o riparazione alla parte lesa ex art. 41 Cedu.
Quanto appena riferito (gravi conseguenze per l’interessato conseguenti alla decisione del giudice nazionale e accessorietà del rimedio dell’equa riparazione) appare tra le altre cose tra i contenuti della Raccomandazione n.R (2000) 2 del Consiglio d’Europa, il quale prescrive in tali ipotesi la revisione o comunque la riapertura del procedimento.
Infatti, in caso di violazione sia di un diritto sostanziale riconosciuto dalla Convenzione che di norme procedurali di sicuro rilievo in relazione all’esito del relativo procedimento l’unica soluzione ragionevolmente adottabile sembra essere quella offerta dall’effettuare il processo ex novo (sentenza Cable and Hood v. United Kingdom) con la possibilità dunque di ripetere il procedimento secondo le regole del “giusto processo” stabilite dalla Cedu.
Del resto, molti Stati (come Belgio, Spagna, Svezia, Russia) hanno risolto il problema grazie al riconoscimento operato da parte della giurisprudenza (interna) dell’operatività del meccanismo per cui quando la Corte europea accerta una violazione del giusto processo segue la riapertura del processo. In altri Stati (come Francia, Austria, Germania, Svizzera, Regno Unito, Polonia, Bulgaria) esistono invece espresse disposizione normative  che prevedono il medesimo meccanismo specificamente.
Come detto, nel nostro ordinamento è presente solo “in fieri” una norma “ad hoc” che prevede la revisione del processo nei casi analoghi al presente, ma non deve sottacersi che c’è chi ha autorevolmente ipotizzato anche il ricorso alla medesima norma che si accinge ad essere modificata (art. 630 cod. proc. pen.) in via interpretativa al fine di consentire comunque la riapertura del processo e la tutela dei diritti riconosciuti dalla Cedu (contra, Cass. pen., Sez. IIIª, sent. n. 2562 del 18.7.1996).
Alla luce di tutto quanto detto le soluzioni possibili appaiono diverse, sebbene egualmente fondate, e sembrano distinguersi esclusivamente in ragione del grado di effettività della tutela dei diritti del “giusto processo” di cui alla Cedu.
Ad ogni modo nel provvedimento in esame si riconosce all’interessato la possibilità di interloquire e difendersi tecnicamente in seno al procedimento camerale di cui all’art. 666 cod. proc. pen. e ciò sicuramente gli consentirà, nel contraddittorio delle parti, di rilevare e esperire ogni mezzo tecnico-giuridico consentito dalla legge, espressamente ovvero solo in via interpretativa.

Cultrera Stefano

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