Violenza di genere e orfani per crimini domestici: l’intervento della Corte Costituzionale

Le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Teramo, con ordinanza del 7 marzo 2017, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119, nella parte in cui per il delitto previsto dall’art. 582 del codice penale – limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte ‒ non prevede l’esclusione della competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen., commessi contro il discendente non adottivo, quale il figlio naturale.

In particolare, il rimettente, quanto alla non manifesta infondatezza dei dubbi di costituzionalità, affermava come la disposizione censurata, non prevedendo l’esclusione della competenza per materia del giudice di pace anche in relazione al reato di lesioni perseguibile a querela, commesso in danno del figlio naturale, e contemplandola invece per lo stesso reato in danno del figlio adottivo, sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. per violazione del principio di eguaglianza e per irragionevolezza intrinseca.

Ad avviso del rimettente, si trattava difatti di una disposizione che, senza giustificazione alcuna, stabilisce, per il medesimo reato, un diverso criterio di riparto della competenza per materia, tra giudice di pace e tribunale ordinario, incentrato sul riduttivo richiamo alle sole ipotesi di aggravamento della fattispecie delittuosa di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen., previste dall’art. 577, secondo comma, cod. pen. posto che soltanto le condotte consumate dal genitore nei confronti del figlio adottivo, già di competenza del giudice di pace, sono divenute di competenza del tribunale ordinario e non anche quelle consumate in danno del figlio naturale, ipotesi disciplinata al primo comma, numero 1), dell’art. 577 cod. pen., pur trattandosi di fattispecie connotate da uno stesso disvalore sociale e ispirate ad una ratio punitiva del tutto sovrapponibile.

Inoltre, la disposizione censurata irragionevolmente, così formulata, comporterebbe che, se il reato di lesioni personali «lievi» (in realtà lievissime ex art. 582, secondo comma, cod. pen.) è commesso in danno del figlio adottivo, risulta compreso tra le fattispecie di cui all’art. 282-bis, comma 6, del codice di procedura penale, il quale consente l’applicazione «della misura dell’allontanamento dalla casa familiare», anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 cod. proc. pen. mentre, là dove la medesima condotta risulti posta in essere in danno di un discendente, qual è il figlio naturale, sussistendo la competenza del giudice di pace, deve escludersi l’applicabilità della citata misura cautelare personale, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 274 del 2000.

Vi sarebbe stata, ad avviso del giudice a quo, pertanto, un’evidente incoerenza intrinseca in considerazione della piena equiparazione della tutela giurisdizionale riservata al figlio adottivo rispetto al figlio naturale, vittime di condotte poste in essere in ambito familiare né, sempre ad avviso del rimettente, sarebbe possibile in altro modo un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, atteso il suo chiaro significato letterale.

Sussisterebbe altresì, sempre ad opinione del giudice rimettente, la violazione dell’art. 24 Cost. perché la disposizione censurata determinava un pregiudizio per i diritti dell’indagato, costituito dalla oggettiva impossibilità per il giudice di adottare un provvedimento ex art. 131-bis cod. pen. per la lieve entità del fatto, trovando applicazione l’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui, per il reato di lesioni «lievi» in danno del figlio naturale, individua quale giudice competente per materia il giudice di pace, impossibilitato a definire il procedimento con un provvedimento di archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis citato.

In punto di rilevanza della questione, il GIP rimettente, inoltre, riferiva come all’udienza camerale ai sensi dell’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., il difensore dell’indagato avesse chiesto l’archiviazione del procedimento, in via principale, per l’infondatezza della notizia di reato e, in via subordinata, per l’operatività della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen.

Osservava il rimettente come tale epilogo decisorio sarebbe stato a lui precluso in quanto obbligato a rilevare la propria incompetenza per materia ai sensi dell’art. 22 cod. proc. pen., essendo prevista per il reato in questione la competenza del giudice di pace dal momento che la disposizione censurata esclude la competenza di quest’ultimo in ordine al delitto di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen. per i soli fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, secondo comma, cod. pen. e non anche per i fatti commessi in danno del figlio naturale, che ricadono nell’ipotesi aggravata di cui al numero 1) del primo comma dello stesso art. 577 cod. pen..

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, era intervenuto nel presente giudizio di legittimità costituzionale chiedendo che veinsse dichiarata l’inammissibilità o l’infondatezza delle questioni.

In primo luogo, l’interveniente osservava come il rimettente lamentasse l’irrazionalità della norma sulla competenza perché preclude la possibilità di applicare al caso sottoposto al suo esame la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., sicché la questione non poteva ritenersi direttamente rilevante ai fini della decisione del processo nel corso del quale è stata sollevata.

Sempre secondo l’Avvocatura generale, per giunta, sarebbe difettata la pregiudizialità rispetto al giudizio a quo in quanto le questioni si riferirebbero all’applicazione di una norma che presuppone la competenza del giudice di pace.
Inoltre – osserva ancora l’Avvocatura – il rimettente non si sarebbe misurato con quella giurisprudenza di legittimità, seppur minoritaria, che ritiene applicabile l’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. anche nel procedimento davanti al giudice di pace.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Prima di entrare nel merito della questione sottoposta al suo scrutinio di legittimità costituzionale, la Consulta, in via preliminare, osservava come l’art. 577 cod. pen., richiamato, limitatamente al secondo comma, dalla disposizione censurata, fosse stato modificato dall’art. 2 della legge 11 gennaio 2018, n. 4 (Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici), che costituisce ius superveniens rispetto all’ordinanza di rimessione; in particolare, evidenzia sempre la Corte in questa pronuncia, la disposizione sopravvenuta prevede che all’art. 577 cod. pen. «sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma, numero 1), dopo le parole “il discendente” sono aggiunte le seguenti: “o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente”; b) al secondo comma, dopo le parole: “il coniuge” sono inserite le seguenti: “divorziato, l’altra parte dell’unione civile, ove cessata”».

Alla luce di tale novum legislativo, di conseguenza, sempre ad opinione del giudice delle leggi, risultava così ampliato l’elenco dei soggetti (persone offese) indicati dalla disposizione richiamata dalla norma censurata per includere per alcuni (art. 577, secondo comma) o, all’opposto, escludere per altri (art. 577, primo comma, numero 1) il reato di lesioni lievissime dalla competenza del giudice di pace, rimanendo tuttavia invariata la censurata regola di competenza quanto al reato di lesioni lievissime in danno rispettivamente del figlio naturale e del figlio adottivo trattandosi, quindi, di un innesto normativo che non modificava (e non modifica tutt’ora) affatto i termini delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente; dunque, alla luce di ciò, non vi era ragione alcune per restituire gli atti a quest’ultimo per il riesame della rilevanza delle questioni stesse (da ultimo, sentenza n. 194 del 2018) evidenziandosi però al contempo come la previsione di ulteriori ipotesi di lesioni volontarie lievissime, quali quelle in danno del coniuge, anche legalmente separato, o dell’altra parte dell’unione civile in corso, attribuite alla competenza del giudice di pace, al pari delle lesioni lievissime in danno del figlio naturale, oggetto delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, verrà stimate rilevante, come emergerà successivamente esaminando il ragionamento decisorio che connota la sentenza in commento, al diverso fine della dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale.

Posto ciò, sempre in via pregiudiziale, si reputava fondata l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato.

In relazione a quanto sostenuto da questa Avvocatura, i giudici di legittimità costituzionale facevano prima di tutto presente come il GIP rimettente, all’udienza fissata ai sensi degli artt. 409, comma 2, e 411 cod. proc. pen., fosse chiamato a pronunciarsi in ordine all’imputazione del reato di lesioni volontarie di un genitore in danno del figlio naturale con conseguente malattia di durata non superiore a venti giorni, reato previsto dall’art. 582, secondo comma, cod. pen., aggravato ex art. 585, primo comma, cod. pen., stante il concorso di una delle circostanze aggravanti previste dall’art. 577 cod. pen., e segnatamente quella prevista dal numero 1) del primo comma, per essere stato il fatto commesso in danno del discendente e, una volta verificata la condizione di procedibilità della querela tempestivamente proposta dalla parte offesa, questo GIP si era preliminarmente interrogato in ordine alla sua competenza stante il disposto dell’art. 22 cod. proc. pen., secondo cui il GIP, se riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa, pronuncia ordinanza o sentenza, rispettivamente nel corso delle indagini preliminari o dopo la chiusura delle stesse, e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Si faceva oltre tutto presente che le considerazioni svolte dal giudice rimettente in ordine alla controversa questione – recentemente risolta dalla citata giurisprudenza di legittimità ‒ del rapporto tra la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., di cui conosce il tribunale ordinario, e quella di improcedibilità, anch’essa per la particolare tenuità del fatto, ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, di cui conosce il giudice di pace, costituivano in realtà un mero obiter dictum inidoneo, in quanto tale, ad attrarre anche la prima disposizione nell’oggetto del giudizio di costituzionalità, che concerne solo la censurata regola di competenza e la cui rilevanza è assicurata dall’evidente necessità per il giudice rimettente di fare applicazione di quest’ultima.

Premesso ciò, la Corte costituzionale postulava come, nel merito, la questione fosse fondata in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., con conseguente assorbimento dell’ulteriore censura di violazione dell’art. 24 Cost..

A tal proposito si sottolineava innanzitutto come fosse necessario premettere il quadro normativo in cui si colloca la questione di costituzionalità, che è fatto di plurimi rinvii e richiami, formali e non già materiali, di disposizioni, sì da risultare, nel complesso, alquanto tortuoso: censurato l’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274 del 2000 nella parte in cui dispone che il giudice di pace è competente: «a) per i delitti consumati o tentati previsti dagli articoli 581, 582, limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte, ad esclusione dei fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’articolo 577, secondo comma, ovvero contro il convivente […]», si denotava come inizialmente tale disposizione – che recava il complessivo catalogo dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace in deroga alla competenza del tribunale ordinario – prevedeva il reato di lesioni volontarie cosiddette lievissime (art. 582, secondo comma, cod. pen), ossia quelle che comportano una malattia di durata non superiore a venti giorni, se perseguibili a querela, ossia in assenza delle aggravanti di cui all’art. 583 cod. pen., che contempla l’ipotesi di lesioni gravi o gravissime, e all’art. 585 cod. pen., che, oltre a particolari modalità della condotta, richiama le circostanze aggravanti dell’omicidio volontario, sia ex art. 576 sia ex art. 577 cod. pen. e quindi, la competenza del giudice di pace, quanto al reato di lesioni volontarie, era ancorata a una duplice condizione: a) malattia di durata non superiore a venti giorni; b) perseguibilità a querela in assenza delle aggravanti suddette, ma con esclusione di quelle indicate nel numero 1) e nell’ultima parte dell’art. 577 c.p. ossia se le lesioni volontarie erano commesse in danno dell’ascendente o del discendente (numero 1 del primo comma dell’art. 577), ovvero se il fatto era commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta (secondo comma dell’art. 577), la competenza era comunque del giudice di pace, pur trattandosi di lesioni aggravate, ma in ogni caso perseguibili a querela.

Chiarito tale aspetto normativo, si rilevava come, prima della modifica della regola di competenza contestata dal giudice rimettente, le lesioni lievissime in danno del figlio naturale e quelle in danno del figlio adottivo avessero lo stesso trattamento sostanziale (quanto alla ricorrenza della circostanza aggravante) e processuale (quanto alla competenza): se punite a querela, per essere la malattia non superiore a venti giorni, era competente sempre il giudice di pace fermo restando che questo assetto era rimasto inalterato in occasione delle ripetute modifiche dell’art. 4 censurato e inalterato era inizialmente anche a seguito del d.l. n. 93 del 2013 atteso come fosse stata solo la legge di conversione a modificare tale regola di competenza; in effetti, per un verso, le parole «ad esclusione dei fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’articolo 577, secondo comma», nei cui confronti si appuntano le censure del giudice rimettente, sono state inserite, nella disposizione del citato d.lgs. n. 274 del 2000, dalla legge n. 119 del 2013, di conversione del d.l. n. 93 del 2013, per altro verso, tale decreto-legge recava un complessivo intervento normativo di repressione della violenza di genere, in sintonia peraltro con la pressoché coeva ratifica, ad opera della legge 27 giugno 2013, n. 77, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e di conseguenza, alla luce di ciò, era di tutta evidenza come il decreto-legge avesse avuto come scopo principale quello di contrastare in modo più incisivo la violenza di genere, ossia le condotte violente poste in essere nell’ambito di contesti familiari o comunque affettivi, rafforzando la tutela delle vittime considerate più vulnerabili, quali le donne, e ciò proprio in ragione del fatto che, tra le novità di maggior rilievo recate dal d.l. n. 93 del 2013 vi fosse la modifica dell’art. 282-bis cod. proc. pen., disposizione questa introdotta nel codice di rito dall’art. 1 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) con la previsione di una speciale misura cautelare personale: l’allontanamento dalla casa familiare.

In particolare, osserva sempre la Corte in questa pronuncia, il comma 6 dell’art. 282-bis elencava una serie di reati – artt. 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies cod. pen. – prevedendo, tra l’altro, che la misura cautelare potesse essere adottata anche al di fuori dei limiti edittali di pena fissati dall’art. 280 cod. proc. pen..

Si evidenziava inoltre come il d.l. n. 93 del 2013, all’art. 2, comma 1, lettera a), avesse inserito nell’elenco del comma 6 dell’art. 282-bis cod. proc. pen. anche l’art. 582 cod. pen., limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, con l’intento di rendere applicabile la misura dell’allontanamento dalla casa familiare anche a questi ulteriori casi di lesioni volontarie e, simmetricamente, avesse modificato l’art. 384-bis cod. proc. pen. quanto all’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, reso anch’esso possibile in caso di lesioni volontarie rilevandosi però al contempo che tale finalità, ossia quella di un più incisivo contrasto della violenza domestica consistente in lesioni volontarie, in particolare con la prevista estensione della suddetta misura cautelare, risultasse però non pienamente conseguita in quanto per le lesioni volontarie lievissime perseguibili a querela (di cui al secondo comma dell’art. 582) era ancora prevista la competenza del giudice di pace, al quale era – ed è – interdetta l’adozione di misure cautelari personali (art. 2, comma 1, lettera c, del d.lgs. n. 274 del 2000) tenuto conto anche del fatto che, sia il parere del Consiglio superiore della magistratura del 10 ottobre 2013 sul d.l. n. 93 del 2013, che le audizioni in Parlamento in occasione della legge di conversione (Atto Camera, Commissioni riunite I e II, seduta del 10 settembre 2013), avessero segnalato il seguente problema: il giudice di pace, in caso di lesioni lievissime, non avrebbe potuto adottare la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis) e dunque, non sussistendo in capo al giudice di pace il potere di applicare misure restrittive della libertà personale, necessariamente il legislatore aveva dovuto modificare il catalogo dei reati attribuiti alla competenza di quel giudice ed era pertanto necessario modificare la regola di competenza, se si voleva elevare il contrasto della violenza domestica anche nel caso di lesioni lievissime.

Alla luce di tale profilo di criticità giuridica, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano come a ciò avesse rimediato la legge di conversione n. 119 del 2013 modificando la regola di competenza (art. 4, comma 1, lettera a) sì da portare nella competenza del tribunale ordinario anche i reati di lesioni volontarie lievissime che prima erano esclusi così come all’art. 2 del decreto-legge era stato aggiunto il comma 4-bis che aveva sottratto alla competenza del giudice di pace il reato di lesioni lievissime nel concorso della circostanza aggravante prevista dall’art. 585 cod. pen. per essere i fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, secondo comma, cod. pen..

Tal che se ne faceva conseguire come l’intervento normativo del 2013 fosse diretto a elevare il livello di repressione della violenza domestica con la previsione di una serie di misure di contrasto e, in particolare, quanto alle lesioni lievissime di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen., con il trasferimento della competenza al tribunale ordinario così escludendo la preclusione all’adozione di misure personali cautelari, quale l’allontanamento dalla casa familiare, nonché il complessivo regime di favore di cui al Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000, quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace.

Se dunque era chiara la ratio della nuova normativa, come emerge dai lavori parlamentari, nel corso dei quali si era posto in rilievo che non di rado le condotte di lesioni, anche lievissime, costituiscono comportamenti cosiddetti “spia” con cui, cioè, si manifestano fatti di prevaricazione e violenza che, spesso, sfociano in condotte ben più gravi e connotate da abitualità: comportamenti in danno di «prossimi congiunti» (come prevede l’art. 282-bis, comma 6, citato) e quindi – si sarebbe portati a credere – in danno, in particolare, sia del figlio naturale che del figlio adottivo, invece, il legislatore del 2013, nel modificare il catalogo dei reati attribuiti alla competenza del giudice onorario, era intervenuto sull’art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000, escludendo la competenza in relazione al reato di lesioni lievissime commesso «in danno dei soggetti elencati dall’art. 577, secondo comma» cod. pen., talché testualmente (e inspiegabilmente) è rimasto escluso il reato di lesioni commesso in danno dei soggetti di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577, tra cui appunto il figlio naturale.

In altri termini, se il regime differenziato, censurato dal giudice rimettente, era conseguenza del diverso utilizzo della tecnica del “richiamo” dell’art. 577 cod. pen. a opera rispettivamente dell’art. 582, secondo comma, cod. pen., e dell’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274 del 2000, all’opposto, per la prima disposizione (art. 582, secondo comma, cod. pen.), il richiamo vale a identificare una fattispecie di lesioni aggravate, anche lievissime (e perseguibili comunque a querela), che sono tali se ricorrono i presupposti sia del numero 1) del primo comma, sia del secondo comma dell’art. 577: ovvero se i fatti di lesione sono commessi in danno di qualsivoglia soggetto previsto dall’art. 577 e quindi, in particolare, tanto in danno del figlio naturale che del figlio adottivo, dovendo intendersi per tale quello che abbia acquisito siffatto stato in virtù, in particolare, di adozione legittimante posto che la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 26 settembre 2017 – 1° marzo 2018, n. 9427), con riguardo al reato di omicidio volontario, che vede come rilevante la distinzione tra «discendente» e «figlio adottivo», aveva ritenuto che nella nozione di «discendente» di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577 cod. pen. rilevi la filiazione biologica, sicché la nozione di «figlio adottivo» di cui al secondo comma dell’art. 577, pur essendo la disposizione rimasta nella formulazione originaria del 1930, è da intendersi riferita anche all’adozione quale regolamentata dalla disciplina successiva al codice civile del 1942 e quindi, in particolare, a quella legittimante, di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) mentre, per la seconda disposizione (art. 4, comma 1, lettera a), il richiamo è differenziato: le lesioni lievissime in danno dei soggetti di cui al numero 1) dell’art. 577 sono rimaste nella competenza del giudice di pace, mentre quelle in danno dei soggetti di cui al secondo comma della stessa disposizione sono state trasferite alla competenza del tribunale ordinario per meglio contrastare questi episodi delittuosi; orbene, proprio da ciò, risulta la regola di competenza differenziata, in particolare, quanto alle lesioni lievissime in danno del figlio naturale ovvero del figlio adottivo.

Una volta fatta questa premessa ricostruttiva del quadro normativo di riferimento, la Consulta, nel merito, stimava la questione fondata con riguardo all’art. 3, primo comma, Cost., sotto un duplice profilo in quanto, da una parte, era stato violato il principio di eguaglianza non essendo giustificato il diverso trattamento processuale riservato al reato di lesioni volontarie secondo che il fatto sia commesso rispettivamente in danno del figlio naturale o del figlio adottivo, stante lo stesso stato di figlio nell’uno e nell’altro caso e quindi il carattere discriminatorio della differenziazione, d’altra parte, non si rinveniva alcuna ragione, quale che sia, della mancata inclusione anche del reato di lesioni volontarie commesso in danno del figlio naturale tra quelli che, già di competenza del giudice di pace, sono stati trasferiti alla competenza del tribunale ordinario per innalzare il livello di contrasto a tali episodi di violenza domestica, con conseguente manifesta irragionevolezza della disciplina differenziata.

Oltre a ciò, sempre per quel che riguarda il principio di eguaglianza, si considerava che, sotto il profilo civilistico, piena è l’assimilazione di stato tra figlio naturale e figlio adottivo e, quanto al profilo penalistico sostanziale, lo stesso trattamento sanzionatorio ricorre per i fatti in danno del figlio naturale e del figlio adottivo, salvo che per l’omicidio atteso che, se per un verso già l’art. 27 della citata legge n. 184 del 1983 ha previsto che per effetto dell’adozione l’adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome e più recentemente, osserva sempre la Corte in questa pronuncia, a seguito del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), la parificazione si è completata: l’art. 74 del codice civile, novellato dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), prevede che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo, salvo nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli artt. 291 e seguenti cod. civ.; l’art. 315 cod. civ., novellato dall’art. 1, comma 7, della medesima legge n. 219 del 2012, ha ridefinito la condizione della filiazione prevedendo in generale che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico e, come affermato dalla Consulta nella sentenza n. 286 del 2016, con tale revisione della disciplina della filiazione, «il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio».

Si faceva presente in contemporanea come, d’altra parte, nella materia penale parimenti si riscontrasse un’analoga equiparazione tra figlio naturale e figlio adottivo dato che, da una parte, già il reato di lesioni volontarie è, allo stesso modo e nella stessa misura, aggravato se il fatto è commesso sia in danno del figlio naturale sia in danno del figlio adottivo visto che l’art. 585 cod. pen. stabilisce che la pena è aumentata fino a un terzo se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 577 cod. pen.; disposizione quest’ultima che prevede sia il fatto in danno del figlio naturale (al numero 1 del primo comma), sia il fatto in danno del figlio adottivo (secondo comma), dall’altra parte, analoga equiparazione ricorre con riferimento ad altri reati dato che: a) l’art. 602-ter cod. pen., quanto alle circostanze aggravanti dei reati di prostituzione minorile e di pornografia minorile, nonché dei reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen., prevede che opera nella stessa misura l’aggravante se il fatto è commesso da un ascendente o dal genitore adottivo; b) in materia di violenza sessuale costituisce circostanza aggravante il fatto commesso dal genitore «anche adottivo» (artt. 609-ter e 609-quater cod. pen.); e così anche nel caso di reato di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies cod. pen.) e assume, quindi, carattere discriminatorio la diversa regola processuale di competenza, in esame, prevista per il figlio naturale rispetto a quella stabilita per il figlio adottivo talché è violato, in via generale, il principio di eguaglianza, avendo essi lo stesso stato giuridico, così come è indubitabile che sia per figli di genere diverso.

Oltre al principio di eguaglianza, la Corte costituzionale osservava come venisse in rilievo anche il principio di ragionevolezza in quanto se è vero è che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 65 del 2014 e n. 216 del 2013; ordinanze n. 48 del 2014 e n. 190 del 2013), nella disciplina del processo in generale, e segnatamente nel processo penale, ampia è la discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza delle scelte compiute essendo stato affermato, in particolare, che non è compito della «Corte procedere ad aggiustamenti delle norme processuali per mere esigenze di coerenza sistematica e simmetria, in ossequio ad un astratto principio di razionalità del sistema normativo»; senza che nel caso di specie siano però rilevabili «lesioni di principi o regole contenuti nella Costituzione o di diritti costituzionalmente tutelati» (sentenza n. 182 del 2007), è altrettanto vero che sempre la Consulta, in relazione alla disciplina della competenza per materia del giudice di pace, aveva più volte affermato (soprattutto con riferimento alla competenza per connessione) che essa appartiene, nei limiti della ragionevolezza, alla discrezionalità del legislatore, e che il discrimine posto in relazione alla competenza del giudice superiore rinviene la propria ratio giustificatrice nelle peculiarità proprie del rito innanzi al giudice di pace, caratterizzato da tratti di semplificazione e snellezza che ne esaltano la funzione conciliativa, nonché nella natura delle fattispecie criminose di ridotta gravità, devolute alla competenza del giudice di pace (sentenza n. 64 del 2009; ordinanza n. 56 del 2010).

Per di più, si faceva presente, sempre nella pronuncia qui in commento, come non potesse di meno ricorrere la irragionevolezza, quale intrinseco difetto di coerenza, anche con riferimento a scelte delle regole di rito, come è in particolare la regola di competenza per i reati attributi alla cognizione del giudice di pace, in deroga a quella del tribunale ordinario visto che sempre la Consulta aveva affermato, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una disposizione che prevedeva la facoltà del querelante di opporsi alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna, che «[l]a censurata facoltà si pone […] in violazione del canone di ragionevolezza e del principio di ragionevole durata del processo, costituendo un bilanciamento degli interessi in gioco non giustificabile neppure alla luce dell’ampia discrezionalità che la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto al legislatore nella conformazione degli istituti processuali» (sentenza n. 23 del 2015).

Difatti, ad avviso della Corte, lo scrutinio di non manifesta irragionevolezza, in questi ambiti, impone di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale e siffatto giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988) fermo restando che il rispetto del canone di ragionevolezza «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014).

Di conseguenza, sotto questo precipuo profilo giuridico, la Corte considerava come un trattamento differenziato tra figlio naturale e figlio adottivo fosse, eccezionalmente, previsto dalla disposizione richiamata da quella censurata con riferimento al reato di omicidio volontario posto che, per un verso, si ha che l’art. 577 cod. pen., richiamato, limitatamente al secondo comma, appunto dall’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274 del 2000, reca tale differenziazione al primo e secondo comma nel disciplinare le circostanze aggravanti dell’omicidio volontario, per altro, nel sistema rimane, discutibilmente, ancor oggi più grave l’omicidio del figlio naturale rispetto a quello del figlio adottivo (sentenza della Corte di cassazione n. 9427 del 2018 citata) e il diverso regime dell’aggravante si fonda sul presupposto della “consanguineità”, risultante – in via eccezionale, quale precipitato di concezioni antiche – dalla contrapposizione tra «discendente» e «figlio adottivo».

A fronte di ciò, ad avviso del giudice delle leggi, la disposizione censurata attribuisce, all’opposto, un minor disvalore alla condotta di lesioni lievissime in danno del figlio naturale rispetto alla stessa condotta in danno del figlio adottivo, così rivelando una marcata connotazione di irragionevolezza dato che non si rinviene nei lavori parlamentari e nella complessiva lettura della legge n. 119 del 2013, unitamente al convertito decreto-legge, alcuna specifica ragione di tale trattamento differenziato, che anzi risulta antitetico (e quindi contraddittorio) rispetto alla evidenziata ratio, eccezionalmente sottesa all’art. 577 cod. pen., ossia il diverso regime delle aggravanti dell’omicidio volontario se commesso in danno del figlio naturale o del figlio adottivo mentre, in mancanza di alcuna opposta plausibile ratio, sempre secondo la Consulta, si ha che del tutto ingiustificatamente la disposizione censurata replica, anche con riferimento alle lesioni lievissime, la distinzione tra «discendente» e «figlio adottivo» quanto a una regola processuale, quale è quella in esame, attributiva della competenza così come, conservando nella fattispecie la competenza del giudice di pace in luogo di prevedere quella del tribunale ordinario, la disposizione censurata non aveva elevato il livello di contrasto nei confronti delle lesioni lievissime in danno del figlio naturale, così come ha invece fatto per quelle in danno del figlio adottivo.

Da ciò se ne faceva discendere la manifesta irragionevolezza della disposizione censurata che, invertendo l’apprezzamento di disvalore delle condotte, ancor oggi perdurante nel sistema, utilizzava non di meno il richiamo proprio dell’art. 577, cui è sottesa una ratio opposta della differenziazione tra «discendente» e «figlio adottivo» e quindi, il trattamento differenziato riservato al figlio naturale rispetto a quello del figlio adottivo viola anche il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).

Una volta ritenuta da una parte la violazione del principio di eguaglianza e, dall’altra, la manifesta irragionevolezza della differenziazione della regola di competenza, si postulava come la reductio ad legitimitatem fosse univocamente orientata dal verso complessivo dell’intervento del legislatore del 2013, che ha voluto reprimere più efficacemente la violenza domestica; sicché a violare il parametro dell’art. 3, primo comma, Cost. è la mancata inclusione del reato di lesioni volontarie lievissime in danno del figlio naturale nell’elenco dei reati, oggetto di un più energico contrasto, che il censurato art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274 del 2000 eccettua dalla competenza del giudice di pace, ossia nell’elenco dei reati, di minore allarme sociale, che – come eccezione alla regola della competenza del tribunale ordinario – radicano invece la competenza del giudice di pace fermo restando che la parificazione di disciplina non potesse realizzarsi altrimenti che “in alto” ossia estendendo – secondo peraltro quello che è il petitum dell’ordinanza di rimessione ‒ la stessa regola di competenza alla fattispecie delle lesioni lievissime commesse dal genitore in danno del figlio naturale, e così rendendo inoperante – come nell’ipotesi di lesioni lievissime in danno del figlio adottivo ‒ la deroga alla competenza del tribunale ordinario, in linea con il più elevato livello di contrasto della violenza domestica, con la conseguente possibilità, in particolare, per il giudice di applicare, nell’uno e nell’altro caso, la misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis cod. proc. pen.), adottabile anche in via d’urgenza (art. 384-bis cod. proc. pen.) atteso che a questa parificazione “in alto” – ossia nella competenza del tribunale ordinario ‒ non sarebbe stato di ostacolo l’irrigidimento della disciplina sostanziale, conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, nella misura in cui, ripristinata la parità quanto alla regola di competenza, si ha anche che non trovano applicazione le disposizioni speciali del Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000 quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace, quale trattamento più favorevole in deroga a quello ordinario.

Di talchè, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale della regola sulla competenza, se ne faceva conseguire come il regime sostanziale delle pene per i fatti di lesioni lievissime commesse dal genitore in danno del figlio naturale risultasse essere quello ordinario, come tale più rigido di quello derogatorio in bonam partem, applicabile allorché operava la competenza del giudice di pace rilevandosi a tal proposito che ls giurisprudenza della Consulta, ribadita anche recentemente (sentenza n. 143 del 2018), ammette, in particolari situazioni, interventi con possibili effetti in malam partem in materia penale (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n. 394 del 2006), pur precisando che «[r]esta impregiudicata ogni ulteriore considerazione […] circa l’ampiezza e i limiti» di tali interventi stante il fatto che se il principio della riserva di legge in materia penale «rimette al legislatore […] la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare» (sentenza n. 5 del 2014), «ma non […] preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo» (sentenza n. 394 del 2006), a maggior ragione l’effetto in malam partem per l’imputato (o indagato) derivante dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale, deve ritenersi ammissibile allorché si configuri come una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale.

Alla luce di tali precisazioni di ordine giurisprudenziale, si evidenziava però come però, per i fatti commessi fino al giorno della pubblicazione della presente decisione sulla Gazzetta Ufficiale, operasse il principio ‒ direttamente fondato sull’art. 25, secondo comma, Cost. e che prevale sull’ordinaria efficacia ex tunc della decisione di questa Corte ai sensi dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) ‒ della non retroattività della disciplina sostanziale che risulti essere peggiorativa per effetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale, talché innanzi al tribunale ordinario competente anche per il reato di lesioni lievissime, di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen., in danno del figlio naturale, l’imputato (o indagato) sarà soggetto all’applicazione della più favorevole disciplina delle sanzioni di cui al Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000, non diversamente da quanto accade nell’ipotesi del tribunale ordinario che si trovi a giudicare di un reato di competenza del giudice di pace (art. 63 del medesimo decreto legislativo) fermo restando che vi è comunque anche, allo stato attuale della giurisprudenza di legittimità, un effetto in bonam partem – questo invece di immediata operatività consistente, ove ricorra un fatto di lieve entità, nell’applicazione della causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen., piuttosto che della causa di improcedibilità di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000.

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Tal che, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata per violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., assorbita l’ulteriore censura mossa dal giudice rimettente con riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede, nella fattispecie finora esaminata, la competenza del tribunale ordinario e, più specificamente, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera a), che – come già ricordato – include nella eccezione alla competenza del giudice di pace il delitto di lesioni volontarie di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen., per fatti commessi in danno dei soggetti elencati nel secondo comma dell’art. 577 cod. pen., comporta la necessaria estensione, nel richiamo operato dalla disposizione censurata, anche ai fatti in danno dei soggetti di cui al numero 1) dell’art. 577, nella formulazione vigente al momento dell’ordinanza di rimessione, ossia ai fatti in danno, in generale, degli ascendenti e dei discendenti, non potendo isolarsi la sola ipotesi del genitore naturale e del figlio naturale, atteso che le lesioni, ancorché lievissime, sono sempre aggravate (ex art. 585 cod. pen. che richiama l’art. 577 cod. pen.), allo stesso modo e nella stessa misura, in ragione del rapporto di ascendenza e discendenza e non già soltanto di genitorialità e filiazione e pertanto, la disposizione censurata veniva dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace anche quello di lesioni volontarie lievissime, previsto dall’art. 582, secondo comma, cod. pen., per fatti commessi contro l’ascendente o il discendente di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577 cod. pen..

Oltre a ciò, la Corte costituzionale stimava di non poter tener conto del fatto che – essendo di natura formale e non già materiale il richiamo che la disposizione censurata fa all’art. 577, secondo comma, cod. pen. ‒ la fattispecie illegittimamente esclusa dal richiamo contenuto nella disposizione censurata si fosse ampliata recentemente con la previsione, ad opera dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 4 del 2018, di altre ipotesi incluse nel numero 1) del primo comma dell’art. 577: il coniuge, anche legalmente separato, l’altra parte dell’unione civile o la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente mentre la stessa disposizione, alla lettera b), aveva considerato distintamente il fatto commesso in danno del coniuge divorziato o dell’altra parte dell’unione civile, ove cessata.

Si evidenziava in particolare come l’intento del legislatore del 2018 fosse stato quello di contrastare ulteriormente fatti di violenza estrema sfociati in episodi di omicidio volontario, soprattutto di donne, e aveva quindi esteso l’aggravante di cui all’art. 577 cod. pen. anche alle ipotesi in cui la vittima fosse stata legata all’omicida da un rapporto coniugale, di unione civile o affettivo, però differenziando l’ipotesi del numero 1) del primo comma di tale disposizione, che all’aggravante collega la pena dell’ergastolo, da quella del secondo comma, che, pur aggravando la pena rispetto a quella di cui all’art. 575 cod. pen., la prevede nella reclusione da ventiquattro a trenta anni ossia il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto più grave l’omicidio del coniuge, anche separato, rispetto a quello del coniuge divorziato; e analogamente più grave quello della parte di un’unione civile in corso rispetto a quello della parte di un’unione civile cessata.

A sua volta questa novellazione delle aggravanti del reato di omicidio, sempre secondo dedotto dalla Corte in questa pronuncia, aveva avuto altresì l’effetto di incidere indirettamente, in ragione del meccanismo del rinvio formale contenuto nella disposizione censurata, anche sulla regola di competenza in esame, quanto al reato di lesioni lievissime ex art. 582, secondo comma, cod. pen., negli stessi termini della (sopra esaminata) differenziazione tra lesioni volontarie lievissime in danno rispettivamente del figlio naturale e del figlio adottivo, così replicando la manifesta irragionevolezza della differenziazione stessa posto che, da una parte, si ha che, sotto l’aspetto sanzionatorio, le lesioni volontarie lievissime sono aggravate nella stessa misura (ex art. 577 cod. pen., richiamato dall’art. 585 senza distinguere tra primo e secondo comma) se commesse in danno del coniuge o della parte di un’unione civile, a prescindere dall’eventuale cessazione degli effetti civili del matrimonio o dell’unione civile, sicché sono pienamente parificate le due situazioni: quelle del numero 1) del primo comma e quelle del secondo comma dell’art. 577 cod. pen. per le quali, sotto l’aspetto processuale, opera, per il meccanismo del rinvio formale, la stessa differenziazione introdotta per l’omicidio volontario senza che sia identificabile alcuna ratio della stessa, che rimane oscura, e anzi risulta una palese contraddittorietà rispetto alla ratio – questa sì ben chiara ‒ che ispira la differenziazione quanto all’aggravamento del reato di omicidio volontario o in altri termini, mentre l’omicidio del coniuge, anche separato, è considerato più grave dell’omicidio del coniuge divorziato, invece le lesioni volontarie lievissime in danno del primo vedono, all’opposto, un contrasto meno energico rispetto a quelle in danno del secondo, perché la competenza del giudice di pace esclude l’adozione di misure cautelari personali quali l’allontanamento dalla casa familiare a tutela del coniuge, anche separato, che subisca tale violenza domestica, dall’altra parte, analoga considerazione vale per la parte di un’unione civile che subisca una violenza domestica in costanza dell’unione o dopo la cessazione della stessa.

Da ciò la Consulta addiveniva a dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui non richiama anche i fatti di lesioni volontarie lievissime in danno dei soggetti indicati nel numero 1) dell’art. 577 non può essere limitata soltanto a quelli previsti da tale ultima disposizione nella formulazione vigente al momento dell’ordinanza di rimessione, ma si estende, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, anche a quelli successivamente inclusi, con la tecnica della novellazione della disposizione oggetto di rinvio formale, dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 4 del 2018.

Conclusioni

La sentenza in esame è sicuramente condivisibile in quanto frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico nonché ancorato su solidi basi normative e giurisprudenziali.

Posto ciò, la declaratoria di illegittimità costituzionale, così come enunciata in questa pronuncia, si pone nell’evidente ottica di rafforzare, sotto il profilo preventivo e repressivo, la normativa inerente la violenza di genere e la tutela degli orfani per crimini domestici, ampliando il catalogo dei reati per cui è prevista la competenza del giudice di pace anche per i delitto di lesione volontarie, di cui all’art. 582, c. 2, c.p., se commessi contro l’ascendente o il discendente di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577 cod. pen..

Non può dunque che prendersi atto di questo intervento della Consulta per la corretta individuazione del giudice (ora) competente a giudicare questi illeciti penali.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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