«Il consenso al matrimonio non implica il consenso a future relazioni sessuali in quanto l’assenza della libera volontà di impegnarsi in relazioni sessuali, in un dato momento e nelle circostanze specifiche, rende ravvisabile lo stupro coniugale».
Così si è espressa la Corte Europea dei Diritti Umani il 23 gennaio 2025 condannando lo Stato francese per aver addebitato la colpa del divorzio alla moglie avendo questa cessato di avere rapporti sessuali con il coniuge. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.
Indice
1. Il fatto
La ricorrente, sposatasi nel 1984, dopo un matrimonio durato circa trent’anni, nel corso del quale erano nati quattro figli, nel 2012 presentava istanza di divorzio ponendo alla base della suddetta richiesta la colpa del marito di aver dato priorità alla carriera ed essere stato violento e offensivo nei suoi riguardi.
Contrariamente, il coniuge sosteneva che la colpa era da attribuire alla donna per non avere quest’ultima adempiuto ai doveri coniugali.
La prima pronuncia dello Stato francese escludeva la colpa dei coniugi e concedeva il divorzio sulla base della irrimediabile rottura del matrimonio.
La ricorrente impugnava la sentenza e, dopo anni di giudizio, lo Stato francese addebitava l’esclusiva colpa alla donna precisando che i motivi di salute addotti dalla stessa non giustificavano la reiterata violazione dei doveri coniugali tra i quali vi rientrava anche quello ad avere rapporti sessuali.
La donna ricorreva alla Corte Europea precisando di non dolersi del divorzio, che lei stessa aveva chiesto, ma dei motivi posti a base della sentenza. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.
Formulario annotato del processo penale 2025
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2. La pronuncia della Corte Europea dei Diritti Umani
La Corte di Strasburgo, il 23 gennaio 2025, precisando che l’aver contratto matrimonio non può implicare l’obbligo a futuri rapporti sessuali, ha condannato lo Stato francese per violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo intitolato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare» il cui testo recita: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza».
“Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Innegabile, per la Corte, la negazione, da parte dello Stato francese, del diritto della donna al rispetto della vita privata, della sua libertà sessuale e del diritto di disporre del proprio corpo.
Così come evidente è la violazione dell’obbligo, posto a carico degli Stati, di prevenzione nella lotta contro la violenza domestica e sessuale.
3. I doveri coniugali in Italia
L’articolo 143 del codice civile sancisce: «Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione…».
Per molto tempo si è ritenuto che tra gli obblighi matrimoniali dovesse rientrarvi la prestazione sessuale in forza di un «Sì, lo voglio» destinato quasi a ricomprendervi ogni aspetto, anche quello più intimo legato alla dignità e alla libertà di disporre del proprio corpo.
Forzatamente, la si ricomprendeva nell’obbligo di assistenza morale!
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4. Dai doveri coniugali alla violenza sessuale
Fino agli anni ’90 la violenza sessuale non aveva la risonanza che ha assunto in seguito atteso che ad essere considerati meritevoli di tutela erano soltanto l’offesa alla morale pubblica e al buon costume.
La reale tutela della vittima si è avuta per effetto della legge n° 66 del 15 febbraio del 1996 che ha inserito nel codice penale l’articolo 609 bis intitolato «violenza sessuale».
Trattasi di reato non casualmente collocato tra i «Delitti contro la persona» con il precipuo intento di tutelare le forme più intime e riservate della persona umana, come le manifestazioni della sessualità.
Il predetto articolo recita: «Chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi».
Ne consegue che, dai doveri coniugali alla violenza il passo è breve in assenza del reciproco consenso e dubbi non possono residuare in merito alla possibile applicabilità dell’articolo 609 bis del codice penale ai danni del coniuge in quanto, come chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione III Sezione penale con sentenza n. 14789 del 2004 «Nel paradigma della fattispecie incriminatrice in esame – articolo 609 bis codice penale – la qualità di coniuge è del tutto sterile ai fini dell’apprezzamento della condotta vietata. Non esiste una “quantità” di violenza sessuale tollerabile tra coniugi e non pure tra estranei».
Il «chiunque» di cui all’articolo 609 bis deve poter ricomprendere anche il coniuge in quanto è proprio all’interno del rapporto di coppia che possono insidiarsi le forme di violenza meno agevolmente riconoscibili.
La Suprema Corte con la citata sentenza, ha ulteriormente precisato: «Ogni forma di costringimento, idonea in qualche modo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, se finalizzata al compimento di un atto sessuale, costituisce, anche all’interno del rapporto di coppia, coniugale o para coniugale che sia, condotta punibile ai sensi della norma incriminatrice in epigrafe».
Ed ancora «Il concetto di violenza sessuale, nella oggettività della tutela apprestata dalla previsione normativa, ha una sua sostanziale ed immodificabile unitarietà che non consente di distinguere tra violenza sessuale consumata tra estranei e violenza sessuale consumata all’interno di un rapporto coniugale. L’esistenza di un tale rapporto o di altro, di contenuto similare, al di là del concreto atteggiarsi della relazione intersoggettiva, secondo alternativi modelli di armoniosa convivenza o di acceso contrasto, non autorizzano alcun uso irrispettoso e tantomeno proprietario e violento, del corpo altrui né limitazioni che valgono in alcun modo a deprimere la libertà della persona o ad umiliarne la dignità. Non esiste cioè, all’interno del rapporto di coniugio un diritto all’amplesso né il potere di esigere o di imporre una prestazione sessuale non condivisa».
Ed infine: «Non può indursi il coniuge a prestazioni in forza di un condizionamento psicologico derivante dai doveri coniugali se manca il consenso atteso che “Ai fini del delitto di violenza sessuale, non si richiede che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo ma è sufficiente che la volontà risulti coartata. Non è neppure necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall’inizio fino al congiungimento: è sufficiente, invece, che il rapporto sessuale non voluto dalla parte offesa sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta»(Suprema Corte III Sez. n° 38909/24 del 25 settembre 2024).
5. La tutela internazionale
Il concetto di dignità, a livello internazionale, lo si ritrova nella Direttiva UE 1385/24 del 14 maggio 2024 «Sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica» laddove al punto 3 si legge «La violenza contro le donne e la violenza domestica costituiscono una violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, come il diritto alla dignità umana…».
È l’articolo 2 lett. a) della Direttiva a fornire la definizione di violenza contro le donne qualificandola come: «Qualsiasi atto di violenza di genere perpetrata nei confronti di donne, ragazze o bambine solo perché donne, ragazze o bambine o che colpisce le donne, le ragazze o le bambine in modo sproporzionato, che provochi o possa provocare danni o sofferenza fisica, sessuale, psicologica o economica, incluse le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, nella sfera pubblica come nella sfera privata».
Di innegabile valore è altresì la Convezione di Istanbul dell’11 maggio del 2011 «Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica».
L’articolo 3 lett. a) chiarisce: «Con l’espressione violenza nei confronti delle donne si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati su genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione della libertà, sia nella vita pubblica che privata».
6. Conclusioni
Alla luce del quadro normativo, nazionale ed internazionale, sopra delineato, la recente pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha il merito di riaccendere i riflettori, anche in Italia, sulla doverosità di tutelare la donna, la sua dignità e conseguentemente la libertà di autodeterminarsi e di disporre del proprio corpo affinché il «Sì, lo voglio» non debba più essere considerato legittimante un vantato diritto di proprietà del coniuge sulla donna.
Insomma, se è vero che «Tra moglie e marito non mettere il dito», in questo caso è dovuta intervenire addirittura la Corte Europea dei Diritti Umani per sancire, una volta per tutte, che non solo la famiglia si fonda sul matrimonio ma, è pur vero, il matrimonio trova la propria ragion d’essere nell’amore e l’amore non è mai sinonimo di possesso!
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