Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.)

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     Indice

  1. Inquadramento generale della fattispecie delittuosa
  2. Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.)
  3. Le questioni di legittimità costituzionale

1. Inquadramento generale della fattispecie delittuosa

La fattispecie delittuosa della violenza o minaccia a un pubblico ufficiale – art. 336 c.p. – è disciplinata dal libro secondo del codice penale – dei delitti in particolare – titolo II – dei delitti contro la pubblica amministrazione – capo II – dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione.

Si tratta di un delitto procedibile d’ufficio – art. 50 c.p.p. – e di competenza del tribunale monocratico – art. 33 ter c.p.p. – . L’arresto è facoltativo in flagranza – art. 381 c.p.p. – mentre non è consentito il fermo di indiziato di delitto. Per quanto concerne le misure cautelari personali sono consentite con riferimento al primo comma – artt. 280 e 287 c.p.p. -. In merito alle misure coercitive sono applicabili per ciò che concerne il comma secondo – art. 391, co. 5, c.p.p., art. 280 c.p.p. e 381, co. 2, c.p.p.

La norma è posta a presidio del corretto funzionamento e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Invero, sono censurati quei comportamenti finalizzati a turbare la libertà di autodeterminazione, anche fisica, dei pubblici ufficiali.

Leggi: https://www.diritto.it/lindividuazione-dei-soggetti-che-esercitano-mansioni-di-pubblico-interesse/.

2. Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.)

Dispone, testualmente, l’art. 336 c.p. che: “Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (357) o ad un incaricato di un pubblico servizio (358), per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, (319, 322, 326) o ad omettere un atto dell’ufficio (328) o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni (339).

La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa (339)”.

Per completezza dell’esposizione, in premessa, giova ricordare che l’espressione violenza o minaccia rappresenta un elemento fondamentale della fattispecie delittuosa in scrutinio. Si tratta dei mezzi utilizzati per piegare la volontà del funzionario pubblico, costringendolo ad agire contro ius. Nella disposizione de qua violenza e minaccia precedono la commissione del fatto ad opera del funzionario pubblico.

A norma dell’art. 393 bis c.p. – causa di non punibilità – introdotto dall’art. 1, comma 9, della legge 15 luglio 2009, n. 94 – Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, come modificato dall’art. 4 della legge 3 luglio 2017 n. 105 – Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e al testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, a tutela dei Corpi politici, amministrativi o giudiziari e dei loro singoli componenti – “Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 339 bis, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.” Tale disposizione ha la funzione di scriminare i comportamenti perpetrati dai privati nei confronti della Pubblica Amministrazione, qualora il funzionario pubblico abbia agito oltrepassando il perimetro dei propri poteri conferiti in virtù della mansione svolta.

È arbitrario qualsiasi comportamento posto in essere nel compimento di funzioni pubbliche, consentite di per sé ma, che travalicano le finalità che portano all’attribuzione della stessa mansione violata. Sul punto si segnala la seguente statuizione della Corte di Cassazione: “È configurabile l’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza al pubblico ufficiale che pretenda di sottoporlo a perquisizione personale finalizzata alla ricerca di armi e munizioni in assenza di elementi obiettivi idonei a giustificare l’atto, e dopo averlo accompagnato coattivamente in caserma in ragione del precedente rifiuto non già di declinare le generalità, ma di esibire i documenti di identità”. (Cass. Pen., 12 maggio 2011 n. 18841).

L’art. 71 del D.L.vo 6 settembre 2011, n. 159 – Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136 – prevede che le pene stabilite per i delitti di cui a questo articolo, sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione.

La fattispecie delittuosa dell’art. 336 c.p. descrive un reato plurioffensivo, poiché lede sia il corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione, sia la capacità di autodeterminarsi del soggetto che esercita le funzioni pubbliche. La condotta censurata dal legislatore si esplica in due diverse modalità tra loro alternative.

La prima di queste modalità è inerente alla violenza nonché alla minaccia compiuta in spregio ad un funzionario pubblico ( pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio) in modo da coartare la volontà dello stesso, al fine di costringerlo a effettuare atti contrari ai propri doveri ovvero ommettere un atto del proprio ufficio o servizio. La seconda modalità si realizza mediante l’uso della violenza o della minaccia finalizza alla commissione di un atto del proprio ufficio o per incidere sulla volontà del funzionario pubblico. “Ai fini dell’integrazione del delitto di minaccia o di resistenza a pubblico ufficiale non è necessaria una minaccia diretta o personale, essendo invece sufficiente l’uso di qualsiasi coazione, anche morale, ovvero una minaccia anche indiretta, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale” (Cass. Pen., sent. 16 dicembre 2021, n. 2104)

In relazione alla minaccia essa deve intendersi come la prospettazione di un male notevole ed ingiusto, tale da coartare la volontà della parte passiva. La violenza, invece, deve essere ripartita in propria ed impropria.

La violenza propria è caratterizzata dall’uso di energia fisica su persone o cose, esperita in via diretta o in via mediata attraverso un oggetto volto ad offendere. La violenza impropria è da ricondurre all’uso di un qualsivoglia oggetto volto a carpire la volontà del funzionario pubblico, rendendo nulla la capacità di determinarsi liberamente.

Fondamento del delitto in scrutinio è che il soggetto attivo, del reato, abbia contezza in merito alla qualifica e/o mansione svolta dal funzionario pubblico.

Infine, giunti alle conclusioni, giova ricordare che dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che violenza e/o minaccia devono, necessariamente, essere caratterizzate dal dolo specifico volto a coartare la libera volontà del funzionario pubblico di compiere o meno un atto. Per converso, la condotta minacciosa o violenta non finalizzata a coartare bensì diretta ad offendere o volta a tenere una condotta genericamente minacciosa, potrà integrare il delitto di minaccia, aggravato dalla qualità ricoperta dalla persona offesa. Non è più configurabile la contestazione del delitto di ingiuria ex art. 594 c.p. in quanto abrogato dall’art. 1, comma , lett. c), del D.L.vo 15 gennaio 2016, n. 7 – Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67 -. A norma dell’art. 12, comma 2, del medesimo provvedimento, se i procedimenti penali per i reati abrogati dal presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice dell’esecuzione provvede con l’osservanza delle disposizioni dell’articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale.


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3. Le questioni di legittimità costituzionale

La norma in scrutinio è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale per ben due volte. Con il primo arresto giurisprudenziale il Giudice delle Leggi ha statuito che: “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 336 c.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 27 comma 3 e 27 Cost., nella parte in cui si prevede come minimo edittale la pena di mesi sei di reclusione (la Corte ha in particolare rilevato, contrariamente all’assunto del giudice a quo, l’impossibilità di estendere alla fattispecie prevista dall’art. 336 c.p. i principi affermati nella sentenza n. 341 del 1994 in tema di oltraggio a pubblico ufficiale). (Corte Cost., 12 luglio 1995, n. 314).

Con la seconda pronuncia la Corte ha disposto che: “E’ manifestamente inammissibile, per difetto di motivazione sulla rilevanza, la q.l.c. dell’art. 4 d.lg. glt. 14 settembre 1944 n. 288, censurato, in riferimento all’art. 3 Cost., ove stabilisce che non si applicano gli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342 e 342 c.p. quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto previsto negli stessi articoli eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni. Infatti, nell’ordinanza di rimessione si riscontrano gravi carenze nella descrizione della fattispecie e non risulta neppure se sussistano le condizioni per l’applicabilità della norma contestata nel giudizio principale” (Corte Cost., 9 febbraio 2007, n. 36).

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