Violenza sessuale, analisi giurisprudenziale

«Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni» (Legge n.66 del 15 febbraio 1996).

Se questo è il normato di base, questi alcuni pronunciamenti della Corte Suprema di Cassazione in merito:

– La sentenza numero 6329 del 20 gennaio 2006, sezione Penale della Cassazione ha stabilito che una ragazza quattordicenne, non più vergine, avrebbe subito una violenza limitata dal patrigno, un uomo di 40 anni.

– La sentenza numero 1636 della Cassazione, del 1999, ha negato l’esistenza di uno stupro perché la vittima «indossava i jeans», ovvero «un indumento che non si può sfilare nemmeno in parte senza la fattiva collaborazione di chi lo porta».

– La Cassazione ha ritenuto sussistente la violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica la condotta di chi ha un rapporto carnale con una donna addormentatasi a seguito di stato di ubriachezza, essendo l’aggressione alla sfera sessuale della vittima connotata da «modalità insidiose e fraudolente» (Cass. sent. n. 1183/2012; n. 20766/2010).

– La terza sezione penale della Corte di Cassazione nel 2010 ha stabilito per il caso di R.L. e L.B. (sentenza del tribunale di Roma dell’agosto del 2011) niente carcere obbligatorio per chi commette uno stupro di gruppo in ragione degli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione della pena) della Costituzione.

– Con la sentenza 40565 del 16 ottobre 2012 la Corte di Cassazione ha deciso che durante una violenza di gruppo, uno sconto di pena deve essere concesso a chi «non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia semplicemente limitato a consumare l’atto». Nella fattispecie, la Cassazione si è espressa in disaccordo con un verdetto di merito precedente che, invece, riteneva che una violenza sessuale portata a estremo compimento sia di per sé un reato grave e non un episodio di «minore gravità».

 – Nel 2014 la Corte di Cassazione ha ammesso l’ipotesi delle attenuanti nello stupro (sentenza n.39445). In pratica, gli imputati per violenza sessuale possono ottenere uno sconto di pena per aver commesso un fatto «di minore gravità» anche nel caso di violenze carnali «complete» ai danni delle donne. Secondo i supremi giudici è necessaria «una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima».

– Con una sentenza dell’anno scorso la Suprema Corte ha puntualizzato che la condotta di coloro che inducano la persona offesa a subire atti sessuali in uno stato di infermità psichica determinato dall’assunzione di bevande alcooliche, essendo l’aggressione all’altrui sfera sessuale connotata da «modalità insidiose e subdole» integra il reato di violenza sessuale, con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica (Cass. sent. n. 45589/2017).

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 32462/2018

Meglio non brindare…

 Più di recente, con la sentenza 32462 depositata il 17 luglio 2018, la terza sezione penale ha ordinato un nuovo processo per rivedere al ribasso le condanne stabilite in appello contro due uomini rei di aver stuprato una ragazza, non costituendo per i giudici un aggravante il fatto che la donna fosse ubriaca, avendo assunto bevande alcoliche di sua volontà.

In estrema sintesi, i due cinquantenni avrebbero approfittato delle sue condizioni di inferiorità per avere con la vittima un rapporto sessuale sebbene non fossero stati loro ad indurla allo stato di ubriachezza.

I fatti risalgono al 2009 nel bresciano ma è del 2011 l’assoluzione in primo grado in quanto la donna- vittima non era stata riconosciuta attendibile. Successivamente, nel gennaio del 2017, la corte di Appello di Torino aveva considerato in modo diverso il referto del pronto soccorso applicando anche l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche».

La Cassazione, dunque, ha ora confermato la responsabilità dei due uomini nello stupro, ma ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado sul punto dell’aggravante.

Nella sentenza si legge che la vittima non poteva dare un «valido consenso» all’atto sessuale, configurandosi gli estremi della «violenza sessuale di gruppo con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica.». Aggiungendo, però: «l’uso volontario, incide sì sulla valutazione del valido consenso ma non anche sulla sussistenza aggravante».

Così come desumibile dall’articolo 609 del C.P. in Italia il presupposto della sussistenza dei reati sessuali è la costrizione sebbene anche l’induzione a un rapporto sessuale, se l’altra persona non è in grado di dare il proprio consenso, è considerato una violenza  (609 ter). L’aggravante è riconosciuto nel caso in cui chi ha indotto o costretto sia anche responsabile di aver somministrato la sostanza intossicante. Chissà che non finiremo per intendere come dirimente se i drink siano stati offerti dall’uomo o pagati di tasca propria dalla vittima…

Se il costrutto della violenza resta incentrato sul consenso, fino a che punto lo stesso può dirsi, infatti, libero e consapevole in uno stato di inferiorità o di bisogno (ipotizziamo la crisi di astinenza di una donna dipendente patologica da sostanze psicoattive legali o illegali)?

Paesi a confronto

Intanto, in Europa il paese che più ha abbracciato il modello consensualistico è il Regno Unito con i 143 articoli del Sexual Offences Act (2003). Nello specifico per i giuristi anglosassoni «agli scopi della presente normativa, una persona consente se aderisce per scelta, e se dispone della libertà e della capacità per compiere tale scelta». Più controversa è stata la vicenda giuridica in Germania dove prima del 2016 una violenza sessuale poteva essere definita stupro solo se chi l’aveva subita aveva provato fisicamente a difendersi e poteva anche dimostrarlo in tribunale. Qualora il rifiuto non veniva espresso in modo esplicito e convincente, la condanna era evitata. La riforma approvata nel 2016 consente invece la punibilità degli atti sessuali «meramente dissensuali», cioè commessi contro la volontà riconoscibile della vittima, senza necessità di violenza o minaccia.

In direzione consensuale ha virato nel 2005 anche la Svezia riclassificando come stupro tutti i rapporti sessuali avuti con una persona incosciente. Lo «stupro di minor gravità», punibile con il carcere da due a quattro anni, è definito come un atto di breve durata, commesso senza violenza o altre umiliazioni, ma per il quale non c’è stato comunque alcun consenso.

Negli Stati Uniti dove fino a qualche anno fa la definizione di stupro riportava al 1929 ( «conoscenza carnale di una donna, in maniera forzata e contro la sua volontà»), la nuova legislazione in materia, oltre a prevedere entrambi i generi tra le vittime e gli aggressori, ha ampliato lo spettro delle possibili violenze prevedendo i casi in cui la vittima non può dare il proprio consenso perché sotto l’effetto di alcol, di droga o perché mentalmente incapace. L’espressione «in maniera forzata» è stata sostituita con «senza il consenso della vittima».

Nello Stato della California nel 2014 è stata approvata una nuova legge fondata sul principio che occorre un consenso chiaro perché l’atto sessuale non sia violenza.

In Italia

In Italia fino agli anni Ottanta questi reati erano classificati secondo il codice Rocco del ventennio fascista («delitti contro la moralità pubblica e il buon costume»).

Inoltre, solo nel 1956 la Cassazione decise che al marito non spettava il potere educativo e correttivo del pater familias, che comprendeva anche la coazione fisica (lo jus corrigendi); così come bisognerà attendere la fine degli anni Sessanta per registrare la dichiarazione di illegittimità operata dalla Corte Costituzionale in merito all’articolo 559 del codice penale. Questo puniva unicamente l’adulterio della moglie.

È incredibile, poi, come solo nel 1981 sia stato abrogato il «matrimonio riparatore» (anche in presenza di violenza su minore purché la stessa accettasse di sposare il suo stupratore) e la rilevanza penale della causa d’onore. Altrettanto imbarazzante è leggere da una sentenza del Tribunale di Bolzano del 1982: «Qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche in maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo.».

Dal titolo IX del C.P. (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) al Titolo XII (Dei delitti contro la persona) il reato è stato trasferito nel 1996, lo stesso passaggio, però, sembrerebbe ancora tardare nel pensiero dominante.

Se in Italia il normato relativo ai delitti sessuali è basato sui principi di un modello vincolato, la giurisprudenza nella pratica ha superato il requisito della violenza mezzo di costrizione, avvicinandosi, ma non ancora pienamente abbracciando, un modello consensualistico.

Ad oggi nel nostro Paese l’articolo 609 bis del codice penale definisce condotta tipica di violenza sessuale, quando un soggetto «con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità» ne costringa un altro «a compiere o a subire atti sessuali». La giurisprudenza provando a sottrarre il termine “atti sessuali” ad una certa confusività tende a includere non solo «gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente.» (Cassazione penale, sez. III, sentenza 26 marzo 2007 numero 12425).

La violenza sessuale, poi, si verifica anche quando c’è induzione a compiere o a subire atti sessuali «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto» o «traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.».  All’impianto, forse, manca ancora un passaggio che è quello dalla costrizione al consenso.

Nello specifico, risale al 2008 la sentenza 4532 della Cassazione nella quale si stabilì che: «Il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di violenza sessuale la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso».

Nel 2012 la Cassazione confermò (sentenza 37916) la condanna a 3 anni e mezzo di reclusione di un uomo decisa dalla Corte d’Appello di Ancona, in quanto «andava condannato per violenza sessuale chi impone pratiche sessuali estreme a una persona che mostrandosi consenziente all’inizio del rapporto, a un certo punto manifesti di non voler andare oltre».

In una sentenza del 2016 sempre la Cassazione (9221) si è pronunciata sulla decisione del Tribunale delle libertà di accogliere il riesame relativo a una persona che era stata posta a misure cautelari per reato di violenza sessuale. Secondo i giudici, il comportamento dell’indagato non era stato caratterizzato da violenza o da costrizione ma piuttosto dal comportamento della donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale completo. L’argomento del tribunale del riesame fu che l’eiaculazione non voluta all’interno della vagina a conclusione del rapporto non intaccava il consenso di lei a un rapporto invece voluto. Il consenso non poteva insomma dirsi derogato solo per effetto di quella particolare conclusione.

Nel maggio del 2015 il tribunale di Modena assolse tre ragazzi dall’imputazione di stupro nei confronti di una ragazza ubriaca perché «se è vero che il comportamento passivo della vittima e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la sedicenne fosse consenziente».

Donne che possono essere violentate…

Tra le tante voci che nei giorni che hanno fatto seguito all’ultimo pronunciamento della Cassazione si sono levate, più o meno scandalizzate, sembra mancarne una: il bere della vittima non è un episodio ma una condizione patologica. In questo caso chi tutela la consumatrice/dipendente patologica? Esiste la possibilità stessa di una tutela?

Abusare di una donna consumatrice di sostanze psicoattive (legali e illegali)/ dipendente patologica nel sentire comune appare quasi di minore rilevanza penale. Essa stessa sembra avere più difficoltà a sentirsene vittima, come se la tossicodipendenza le offrisse un ruolo in cui tale esperienza non è inconsueta quando non del tutto inevitabile.

A tal proposito tra il 15 giugno e il 15 luglio 2011 è stata condotta un’inchiesta su 65 donne tossicodipendenti appartenenti alla popolazione femminile totale del Dipartimento Dipendenze Patologiche della Azienda Sanitaria Locale di Taranto, un campione casuale dell’intera popolazione (139 donne) (Anna Paola Lacatena, Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale, Franco Angeli, Roma, 2012, con prefazione di Don Andrea Gallo).

Tra gli obiettivi della ricerca c’era la possibilità di indagare se le donne in carico, sottoposte al questionario autosomministrato e alcune di esse ad una successiva intervista non strutturata, avessero subito violenze sessuali prima e/o dopo l’utilizzo di sostanze psicotrope al fine di ipotizzare quanto la violenza sessuale potesse essere stata causa dell’assunzione di sostanze e quanto la stessa una sua conseguenza.

Se l’uso di droghe può, infatti, favorire la condotta criminale (punto di vista criminologico), chi fa uso di droghe potrebbe avere maggiori probabilità di diventare vittima di reato (punto di vista vittimologico). Non è improprio pensare che le molestie, gli abusi, le violenze sessuali, i maltrattamenti in famiglia, le istituzionalizzazioni siano spesso tra i fattori predittivi al consumo di sostanze. Le stesse sostanze, la ricattabilità della condizione, l’ambiente di vita, la necessità di altra sostanza aprono, però, alla possibilità di sempre nuovi reati e abusi agiti contro la persona, nella fattispecie il tossicodipendente e, ancor più specificatamente, la donna.

Se la violenza sessuale è più facilmente percepita come tale prima dell’avvio della carriera tossicomanica, nello strutturarsi della dipendenza la vittima sembra perdere i riferimenti. Nella difficoltà di riconoscere tale esperienza nonché la portata traumatica della stessa, sembra delinearsi la consuetudine dell’inevitabile. A questa legge non scritta dell’approvvigionamento di sostanze, si unisce quella di quanti, quasi in una sorta di appostamento paziente, attendono l’effetto dell’assunzione per beneficiare della passività e dell’arrendevolezza dettata dall’alterazione dello stato di coscienza.

Dall’esperienza riportata dalle donne ascoltate all’interno della ricerca (con una percentuale di esperienze di violenza sessuale di quasi una donna su due), si fa largo l’idea che la violenza sessuale perde la sua riconoscibilità a partire dal momento in cui interviene la sostanza ed il suo bisogno. Se l’uso di quest’ultima atta a vincere la resistenza della vittima è contemplata dal nostro ordinamento come circostanza aggravante, lo stesso non sembra altrettanto garantista in merito alla tossicodipendenza della vittima e al suo stato psico-fisico al momento della violenza sessuale.

Quanto si possa essere lontani da una piena consapevolezza in merito a questi aspetti è pressoché evidente. È la realtà a sottolineare l’indubbia distanza dalla piena constatazione che la violenza sessuale non è e non deve essere una questione esclusivamente privata. Ancora oggi, invece, sembra essere un fattore determinante non il consenso della donna ma il giudizio che l’opinione pubblica manifesta nei confronti della sua condotta, del suo abbigliamento, dell’energia profusa per tentare di respingere, ecc.. Se è difficile per una donna denunciare l’aver subito atti così spregevoli, lo è molto di più per una consumatrice/dipendente patologica.

Dovrebbe riconoscere l’aggressione in quanto tale, denunciarla e rendere nota, contemporaneamente la propria condizione di salute. Dovrebbe farlo sperando di essere ritenuta credibile, “valutata” come tale e come destinataria meritevole di una tutela simile a quella da assegnare alle altre donne. È assai probabile tenga tutto per sé, cercando di “abituarsi” all’idea di essere e meritare di meno, proseguendo la carriera tossicomanica in un processo profondo e continuo di disvalore di sé.

Come può non essere un aggravante approfittare della condizione di vulnerabilità che l’uso di sostanze psicoattive può determinare, tanto che le stesse siano state offerte, promesse, usate come premio in cambio di prestazioni sessuali, percepite come alleate nell’intaccare la resistenza della donna o autosomministrate dalla stessa?

Come può essere valutata una situazione di questo tipo sulla scorta del consenso espresso, espresso sino ad un certo punto o negato? Quell’odiosa espressione “se l’è andata a cercare…” continua a tenere banco con intensità a modulazione differenziata. È comunque lì a spingerci (uomini e donne) a dimenticare che l’offesa alla bellezza, alla ricchezza, alla specificità della sessualità umana non ammette pseudo-emendanti vie traverse.

 

Dott. ssa Lacatena Anna Paola

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