Sussiste il reato di violenza sessuale aggravato dall’abuso delle condizioni di inferiorità psichica della vittima, ex art. 609 bis, comma 2 n. 1 ***, anche all’interno di una relazione sentimentale protrattasi per 8 mesi, attesa l’invalidità del consenso accertata a mezzo di perizia psichiatrica. Lo ha stabilito il Tribunale penale di Trieste, in composizione Collegiale, con la sentenza n. 555/15, depositata lo scorso 28 luglio 2015, che ha riconosciuto la penale responsabilità di *** in ordine al reato contestato con condanna ad anni 6 di reclusione. Il Giudice, ritiratosi in camera di consiglio dopo le conclusioni delle parti, riteneva indispensabile per la decisione disporre perizia psichiatrica collegiale sulla persona offesa, al fine di stabilire le di lei condizioni psichiche all’epoca dei fatti e, nel caso di eventuale accertamento di una patologia, se la stessa fosse riconoscibile a terzi. Se fosse, inoltre, in grado di esprimere un valido consenso ai rapporti sessuali e, parimenti, di esprimere un valido dissenso percepibile da terzi e quindi anche da *** I periti concludevano affermando che la persona offesa si trovava in condizioni di inferiorità psichica, rilevante ai fini di quanto disposto dall’art. 609 bis ***, in quanto affetta da disturbo border line della personalità noto all’imputato. Il consenso alle prestazioni sessuali non poteva, pertanto, essere ritenuto valido, anche se la persona offesa non manifestava un esplicito dissenso a causa della condizioni di inferiorità psichica in cui si trovava. Preso atto dall’elaborato peritale, che la persona offesa nel corso della relazione sentimentale, era affetta da una patologia psichica rilevante e conosciuta da ***, il Tribunale riteneva provato anche l’abuso di tale status da parte del prevenuto finalizzato al compimento di atti sessuali ai quali la donna altrimenti non si sarebbe prestata. Si legge in sentenza al riguardo:”F. blandiva la B. dicendo di amarla, promettendole un futuro normale insieme, e così la spingeva ad attaccarsi a lui. Mediante frasi e atteggiamenti di tutt’altro tenore, poi, la faceva sentire inadeguata e immeritevole di affetto e quindi inevitabilmente destinata all’abbandono. A fronte di tale prospettiva, per lei insopportabile, la xxx lo assecondava in tutto pur di tenerlo legato a sé e in un-elementare e ingenuo, quasi infantile, tentativo di riconquistare l’affettività che era stata percepita come perduta-(cfr. perizia) accettava atti sessuali ai quali altrimenti non avrebbe acconsentito”. Spiace sottolineare come il Giudicante abbia, sic et simpliciter, inteso una relazione sentimentale esclusivamente fatta di atti sessuali. Senza minimamente apprezzare altri momenti felici, pure presenti in qualsiasi rapporto, anche fra i più travagliati. ***, per esempio, ha girato un video, con protagonista la persona offesa, sul disagio mentale. Le frequentazioni con amici comuni, le visite alla madre della fidanzata, le numerose telefonate, i viaggi anche a scopo didattico, la promessa di matrimonio, la ricerca di una casa per vivere assieme, sono solo alcuni spunti per dire che non si è trattato di una relazione caratterizzata solo dal sesso. Da non sottovalutare nemmeno che il rapporto si è interrotto quando la persona offesa ha saputo che *** aveva un’altra relazione. Diventa a questo punto difficile, volendo anche ammettere la piena consapevolezza in capo a *** delle condizioni di inferiorità della vittima, che la sua azione fosse diretta conseguenza di induzione ed abuso. L’abrogato reato di “violenza carnale”, sanzionato dall’art. 519 c.p. , dava piena tutela al malato di mente indipendentemente dalla specie e dal grado della sua infermità, negando ogni valore giuridico al suo consenso. In altre parole chi aveva un rapporto sessuale con un soggetto affetto da infermità psichica, anche se consenziente, violava comunque la legge penale, versando in un’ipotesi di violenza carnale presunta, dove l’assenso all’amplesso non aveva alcun valore e veniva equiparato, ex lege, ad un dissenso. La legge n. 66/1996 ha abrogato l’intero capo relativo ai delitti contro la libertà sessuale ed ha modificato l’originaria collocazione sistematica del reato di violenza sessuale che, da delitto contro la moralità pubblica ed il buon costume, è divenuto delitto contro la libertà personale. E’ venuta a cadere anche la presunzione assoluta di invalidità del consenso a compiere un atto sessuale da parte di soggetti che si trovino in condizioni di inferiorità psichica riconoscendo agli stessi il diritto ad esprimere liberamente la loro sessualità, a meno che non vi sia induzione ed abuso delle condizioni di menomazione. Il tema è delicatissimo in quanto la linea, che separa in questi casi la prestazione di un valido consenso al delitto di violenza sessuale, è molto sottile. Secondo l’orientamento costante della Suprema Corte l’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione sottile e subdola, il soggetto attivo spinge, istiga o convince una persona debole ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto o subito. L’abuso consiste in un doloso sfruttamento della menomazione della vittima e si verifica quando le condizioni di inferiorità sono strumentalizzate per accedere alla sua sfera intima, così riducendola a un mezzo per l’altrui soddisfacimento sessuale. E’ pertanto essenziale che sussista un vero e proprio nesso causale tra minorazione del soggetto passivo, l’abuso che di questa compia il soggetto agente e l’atto sessuale. Un accertamento da parte del Giudice bisognoso di un particolare rigore per non sconfinare nel reato di plagio, dichiarato costituzionalmente illegittimo nel 1981. In cinquanta anni di vigenza della norma, art. 603 Codice Rocco, vi è stata una sola condanna nel 1968, oggetto di aspre critiche, che ha visto come protagonista il prof. *** e quale vittima un suo allievo, molto più giovane di lui. La sentenza del Tribunale di Trieste, condannando ***, sembra alludere ad un pericoloso ritorno al passato, che doveva essere ormai cancellato. Viene, infatti, rimessa ad un Collegio di periti anche la valutazione in punto validità del consenso da parte della persona offesa. E gli psichiatri così rispondono al quesito:”il consenso della persona offesa ai suoi rapporti con *** non può essere ritenuto valido in conseguenza della grave condizione di inferiorità psichica in cui la stessa si trovava”. Era già una sentenza di condanna. Con questo ragionamento, inevitabile è il richiamo al vecchio concetto di violenza carnale presunta dove era sufficiente dimostrare unicamente lo stato di inferiorità psichica della vittima, per ritenere invalido il consenso. Le considerazioni dei consulenti, riportandosi a questo principio, trovano fondamento solamente su un’indagine scientifica, tralasciando ovviamente di prendere in considerazione, perché esula dalle loro competenze, se vi sia stata induzione ed abuso. Circostanza quest’ultima di esclusiva competenza del Giudicante e che non poteva mai essere oggetto di perizia. Non comprendiamo a questo punto quale valore giuridico possa essere attribuito al concetto di invalido consenso per infermità psichica enunciato dai periti d’ufficio, per carenza di qualsiasi valutazione in merito all’induzione a all’abuso; acclarato ormai che si può parlare di consenso viziato in presenza di due condizioni: la prima che il soggetto abbia agito nella piena consapevolezza delle condizioni di inferiorità della vittima, la seconda che l’azione debba essere conseguente ad induzione e ad abuso. Si potrà, in ultima analisi, parlare di un valido consenso ad atti sessuali, anche da parte di un infermo psichico, quando non risulti provato che vi sia stato approfittamento del suo status di menomazione finalizzato al compimento di atti sessuali. Se poi tutto accade nel corso di una relazione sentimentale assai difficile se non impossibile, risulta la dimostrazione che l’unico scopo del soggetto agente sia stato proprio quello di avere rapporti intimi con la vittima, che altrimenti non li avrebbe acconsentiti.
Violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità psichica: perico-loso ritorno al passato
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