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Il caso sub Judices
Un uomo, di origine albanese, era stato assolto dal delitto di violenza sessuale, nei due gradi di giudizio, avente il seguente capo di incolpazione: “in più occasioni, abusando della propria autorità di padre, del divario di età e della condizione di immaturità del figlio minore, con violenza consistita nell’abbassargli repentinamente i pantaloni, lo costringeva a compiere e subire atti sessuali, quali palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali”. Era stata rinviata a giudizio anche la moglie convivente perché, pur consapevole delle condotte delittuose perpetrate dal coniuge, non interveniva per bloccarne la commissione.
In primo e in secondo grado, gli imputati erano stati assolti dalle imputazioni a loro ascritte poiché i fatti “non costituiscono reato”.
Mentre in primo grado, l’Autorità Giudicante non ha ritenuto corretta la configurazione della fattispecie incriminatrice, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, sulla base di una “scriminante culturale”; la Corte di Appello, invece, ha escluso il reato, mancando in concreto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, la condotta penalmente rilevante.
Il Giudice di prime cure ha ritenuto, senza alcun ragionevole dubbio, la sussistenza della condotta materiale dell’evento delittuoso in quanto “nessuna incertezza può porsi circa la qualificazione oggettiva della natura sessuale dell’atto contestato” dal momento che, quale che sia la concezione dell’atto sessuale che si adotti, nessuno dubita che il contatto con l’organo maschile, nella specie il bacio o l’inserimento del pene in bocca, possa integrare un atto sessuale. Il Tribunale ha, tuttavia, rilevato che, sul piano soggettivo, l’intenzionalità della condotta posta in essere dal padre nei confronti del proprio figlio debba essere valutata, e interpretata, alla luce della valenza culturale che quel gesto assume nel contesto sociale da cui i genitori provenivano. Era, pertanto, da escludersi il dolo. Il fattore culturale, infatti, influenzerebbe non solo la coscienza dell’antigiuridicità della condotta, ma anche la comprensione e la consapevolezza del comportamento realizzato e del precetto penale violato nel caso concreto.
I Giudici escludevano il dolo evidenziando come fosse sussistente, nel caso sottoposto alla loro attenzione, la mancata conoscenza del precetto violato, ex articolo 5 cod. pen.
A tal proposito, si faceva riferimento al contesto dal quale gli imputati erano oriundi.
In alcune zone rurali dell’Albania, infatti, sarebbe di buon auspicio accarezzare i genitali della prole per garantirne prosperità. Tradizioni ancestrali che erano riferite all’Autorità Giudicante personalmente dagli imputati e da documentazione difensiva prodotta.[1]
Il Collegio di Appello ha escluso il reato ritenendo che i fatti verificatisi, dal punto di vista materiale, si traducessero in “meri gesti di affetto e di orgoglio paterno privi di alcuna connotazione sessuale” e, di tal guisa, dal punto di vista soggettivo, il comportamento posto in essere dal padre nei confronti del proprio figlio “non realizzava alcuna concupiscenza sessuale”. Il padre, infatti, avrebbe realizzato la condotta delittuosa senza libidine o, ancora meglio, senza alcuna intenzione di violare l’incolumità psico-fisica del figlioletto.
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La decisione della Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 29613 del 29.01.2018 depositata il 02.07.2018)Pres. Tosi
Gli Ermellini, dopo una breve disamina sulla categoria dei reati culturalmente orientati[2], ribadiscono che, nella valutazione delle fattispecie delittuose commesse sulla base di una giustificazione culturale, sia necessario un approccio analitico ed esegetico che risenta del “momento storico, del mutamento dei costumi e del sentire sociale più che di una tralatizia ripetizione di concetti”.[3]
Tuttavia, se le norme penali risentono del contesto cui sono inserite ai fini della loro interpretazione (in questo caso il multiculturalismo) non si può, in un giudizio di bilanciamento tra principi sanciti a livello ordinamentale, introdurre prassi, tradizioni e consuetudini che siano contrari ai diritti inviolabili dell’uomo. Situazioni giuridiche soggettive, di cui al combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Carta Costituzionale, che devono essere riconosciuti a ciascun individuo, indipendentemente dalla etnia o razza cui appartenga, ed a prescindere dal contesto sociale di provenienza. Un giudizio di bilanciamento tutt’altro che semplice nel caso concreto.
Il diritto del genitore a rispettare le proprie tradizioni culturali e religiose come se fosse “a casa propria” e quella del figlio alla propria identità personale e integrità psichica e fisica.[4]
Sul punto:”Obbligatorietà della legge penale: gli attriti con i reati culturali”
Al fine di comprendere l’incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell’agente, è necessario verificare il tipo di norma, se giuridica o religiosa, la vincolatività della stessa e il grado di inserimento dell’immigrato nella contesto di un altro paese. Valutazione questa che è essenziale e, direi preliminare, in punto di diritto, per comprendere se la condotta degli imputati possa essere giustificata o meno.
Sebbene sia irrilevante l’ignoranza della legge penale, sulla scorta del noto brocardo ignorantia legis non excusat, a meno che non sia inescusabile, risulta che gli imputati risiedessero da tempo in Italia, fossero ben integrati e capaci di comprendere il disvalore della propria condotta nel contesto in cui l’hanno manifestata.[5]
Ciò posto, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata per violazioni di legge.
Gli Ermellini elaborano il seguente principio di diritto sulla base di una interpretazione sistematica e cogliendo la ratio legis dell’articolo 609 bis cod. pen. “Ogni atto invasivo della sfera sessuale di un soggetto, in mancanza del suo consenso, lede il bene giuridico protetto dalla norma, a prescindere dal motivo per il quale il soggetto l’abbia posta in essere”. Allorché le vittime di violenza sessuale siano minori, nel caso di specie il bambino era infraquattordicenne, la tutela del benessere e incolumità fisica risulta intangibile a prescindere da un eventuale consenso prestato.
Devono essere considerati atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene e che siano idonee a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizione di inferiorità fisica o psichica tra i quali vanno ricompresi i toccamenti e palpeggiamenti, essendo irrilevante che, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito soddisfazione erotica.
Quanto alla presunta scriminante culturale è necessario sottolineare come la stessa non sia idonea a giustificare la condotta posta in essere dal genitore. Dalla documentazione in atti è emerso che la pratica posta in essere sia diffusa in alcune zone rurali dell’Albania e, anche quando recepita dall’agente, prevedrebbe delle mere carezze e non vere e proprie fellatio che prescindono e oltrepassano la tradizione stessa.[6]
La Corte di Cassazione, alla luce delle argomentazioni di cui sopra, annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Corte di Appello.
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Note
[1] In particolare una nota della Prefettura di Lvore riferiva l’esistenza di una tradizione per cui il padre manifesta affetto per il proprio figlio, accarezzandolo nelle parti intime esprimendo così gloria della prosperità e continuità della generazione.
[2] Per la definizione di reato culturalmente orientato si rinvia a C. MAGLIE, I reati culturalmente motivati, Edizioni ETS, “Un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo etnico di minoranza che è considerato reato dalle norme del sistema della cultura dominante. Lo stesso comportamento, nella cultura del gruppo di appartenenza dell’agente, è invece condonato, accettato come normale o è approvato, o in determinate situazioni, è addirittura imposto”, 2010, p. 30.
[3] Sul punto, MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2009, pp. 605 ss. Le norme penali all’interno delle quali compaiono elementi normativi culturali costituiscono una prova evidente delle possibili intersecazioni tra norme penali e culturali. Il Giudice nella sua attività di iuris dicere sarà chiamato ad attribuire rilievo ai valori che il diritto penale recepisce, attraverso il richiamo ad elementi normativi extragiuridici, nella loro consistenza in un certo periodo storico e sociale.
[4] Sul punto si rinvia a F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 373 -376. In particolare, l’Autore parrebbe prospettare per l’immigrato un diritto a far valere la propria cultura, c.d. right to culture, in funzione di scriminante, ex art. 51 cod. pen. Il riconoscimento di tale diritto sarebbe riconosciuto non solo nella nostra Costituzione, in virtù di quanto previsto dall’art. 19 che tutela la libertà religiosa, ma anche a livello sovrannazionale (tra gli altri si veda il Patto internazionale dei diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e ratificato in Italia con legge 15 dicembre 1977 n. 881). Seri ostacoli si riconoscono all’esercizio di tale diritto se il fatto di reato, che vorrebbe essere giustificato, comporti l’offesa di un bene di elevato rango costituzionale. Non appena, infatti, si proceda al bilanciamento tra il diritto alla propria cultura e questi diritti danneggiati o messi in pericolo dal fatto di reato, il primo risulterà destinato a soccombere.
[5] Sul punto, i fattori, da cui possa dipendere la valutazione circa la inevitabilità dell’ignoranza delle legge penale, dipendono: dalla naturalità o artificialità del reato. Infatti, i primi tendono a negare qualsiasi spazio ad una ignoranza inevitabile delle norme penali che configurano delitti naturali es. riduzione in schiavitù, atti sessuali con minorenni; dal grado di eterogeneità tra cultura italiana e di origine. Quanto più grande è la distanza tra le due culture, tanto più è plausibile l’inevitabilità dell’ignorantia legis.; dalla durata del soggiorno in Italia; dall’esistenza nel paese di provenienza di una norma penale dal contenuto analogo a quella violata. Occorre porsi la domanda se la fattispecie delittuosa commessa dallo straniero sia punita anche dal paese di origine. Più approfonditamente si rinvia a F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., pp. 196 ss e G. FIANDACA e A. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Torino, 2006, p. 402
[6] Punita anche dal Codice Penale Albanese all’articolo 100 ss.
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