Giurisprudenza anteriore alla Sentenza Raso: capacità di intendere e di volere, imputabilità e vizio di mente
La Corte Costituzionale con la sentenza n.364 del 1988 è intervenuto per definire la rilevanza del contenuto di colpevolezza ritenendo impossibile un suo dissociarsi dalla rimproverabilità del fatto facendo leva sull’art 27 Cost. Il principio di colpevolezza è limite per il privato dal compimento di azioni controllabili dotate di disvalore intrinseco. Il co.2 dell’art 27 Costituzione individua esattamente il fine della sanzione: la risocializzazione e la rieducazione del condannato; esse hanno senso di esistere solo se si dà rilievo alla relazione tra l’agente e il fatto da lui commesso. Questa relazione soggettiva dell’agente è punto di partenza per intendere ciò che la corte ha sancito con suddetta sentenza. Nello specifico che senso avrebbe rieducare chi al momento del fatto era affetto da infermità mentale e quindi incapace di comprendere il disvalore della sua condotta; il processo di risocializzazione richiede che il reo abbia la capacità psicologica di percepire il significato della pena a lui comminata. I giudici di merito hanno emesso pareri discordi sul far rientrare o meno i disturbi psichici della personalità tra le patologie in grado di compromettere totalmente o parzialmente la percezione della realtà. La Giurisprudenza consolidata a più riprese si è pronunciata su una infermità mentale meno ampia, non permettendo il farvi rientrare anomalie transeunte di coscienza (es. stati depressivi); queste sarebbero si un turbamento delle attività psico-fisiche del soggetto ma non riconducibile alla nozione di infermità così come delineata dall’art. 88 e 89 del c.p. Questo orientamento è condivisibile anche alla luce dell’art.90 cp. che sottolinea come “ gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”; di conseguenza non è ammissibile far leva sulle scienze psichiatriche per allargare l’ambito di infermità mentale. La Corte Costituzionale esprime con la decisione una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sulla imputabilità rispetto e i linea con la giurisprudenza consolidata asserendo che “… il sapere psichiatrico, nella vigenza dell’attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di infermità ad alterazioni passeggere della sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscono il naturale portato degli stati emotivi o passionali di cui sia riconosciuta l’esistenza”. La interpretazione della Corte Costituzionale è corretta se analizzata dal punto di vista letterale ma una applicazione troppo rigida del 90cp. non rispecchia ciò che nella prassi avviene; dal punto di vista empirico un’alterazione passeggera e non stabile pur non comportando una menomazione totale (infermità mentale) determina una diminuzione della capacità di intendere e volere.
Partendo da questo concetto la Corte di Cassazione ha cercato di temperare quanto stabilito dall’art.90 cp. facendo riferimento non ai disturbi della capacità ma alle psicopatie che possono assumere rilevanza di scusante o attenuante. Le psicopatie per assumere questa rilevanza necessariamente devono avere una intensità così elevata da determinare una debolezza mentale. Talune sentenze in questi casi concedere alla psicosi valore di “malattia”.
Sentenza Raso e ampliamento della nozione di infermità mentale
La sentenza n. 9163 del 25/01/2006 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nota anche come Sentenza Raso, è intervenuta in relazione alla questione inerente la relazione tra infermità mentale e imputabilità soggettiva, nonché del problema relativo a che contributo sono in grado di dare i periti nel corso del giudizio. Con questa sentenza si è sancito l’autonomia del diritto dalle scienze psichiatriche ed ha tagliato di netto quella parte della giurisprudenza che era incline ad essere influenzata nel giudizio dalla psichiatria.
Premettendo che la scienza psichiatrica ha una visione della capacità di intendere e volere che può essere influenzata da elementi biologici, psicologici e ambientali esterni, essa riconosce in via oggettiva le malattie della psiche, distinguendole in quattro insiemi:
a) Quello che si occupa di conoscere e trattare i fattori biologici della patologia psichica; le patologie psichiatriche derivano sul piano biologico dal danneggiamento o disfunzionamento del sistema nervoso.
b) Quello che si occupa del comportamento in senso stretto a prescindere dalla verifica medica di una preesistente insufficienza mentale.
c) Quello che dà maggior rilievo all’inconscio sull’io.
d) Quello che individua le eventuali disfunzionalità del cervello.
Il diritto penale analizza la infermità mentale non solo come una patologia in sé ma anche come una realtà complessa e influenzabile da elementi esterni. Questa è la prospettiva manifestata con la sentenza del 2005 da cui discende la impossibilità di inserire il soggetto in una determinata categoria patologica senza avere riguardo in concreto alla sua personale esistenza ( “infermità mentale latu sensu”) . Un’ infermità mentale “aperta” determina una rivisitazione della imputabilità delineata dall’art.85 c.p. in forza del fatto che se un soggetto ha una distorta percezione della realtà come può capire l’antigiuridicità insita nel suo comportamento. La psichiatria pertanto, cosi come avvenuto per la sentenza Raso, sarà uno strumento molto rilevante prima nella corroborazione del giudizio del giudice e poi in una visione del diritto non più autoritario e riconducibile a categorie ma influenzabile dal sapere specialistico; il ricondursi a categorie sarà fondato se oggetto di analisi ci sarà una realtà fisica durevole come il fatto penalmente ma non nel caso in cui l’oggetto sia il comportamento o la rappresentatività dell’azione. Ora se s’intende in tal senso la infermità mentale è facile capire che la capacità di intendere e volere avrà una portata definitoria ampia e molto generica; si corre il rischio di affidare il giudizio sull’imputabilità di un soggetto allo psichiatria che, pur essendo terzo e imparziale nello svolgimento di una perizia, non può non essere influenzato dalla propria impostazione culturale e ideologica e dal modo in cui egli intende la “ratio esistendi” degli istituti giuridici del diritto penale (es. fine deterrente della pena). Si potrebbe creare un “potere giudiziario del medico” e, nel caso di perizie contrarie, in una “battaglia tra esperti”. Se il contraddittorio si riduce in una battaglia vuota tra esperti allora si avrà una controversia scientifica, che vìola la regola primaria di ogni processo ovvero il contradditorio di parte.
Il giudizio del giudice per arrivare sarà tenuto a districarsi tra le opinioni degli esperti, spesso tra loro confliggenti, tenendo conto della differenza insita tra giudizio specialistico affidabile e giudizio specialistico valido.
Il ruolo della psichiatria nella definizione di “disturbi della personalità”
In base a quanto è stato illustrato come l’insieme dei disturbi della personalità sia quanto mai non privo di dubbi sia in relazione a quali siano i suoi contenuti sia nel capire quali disturbi sfocino in vere e proprie patologie. Da ciò ne consegue che la scienza psichiatrica non riesce a dare una definizione definitiva dell’alea dei disturbi della personalità, facendone discendere una criticità nel sistema giustizia alla luce della nuova formula di infermità mentale che discende dalla sentenza Raso. Il discorso si complica ulteriormente se si sottolinea che in generale la volontà è autonoma da ogni determinismo e che vi è differenza sostanziale nel comportamento umano tra libertà di scelta e libertà di azione. La prima riguarda la possibilità che un soggetto, in una data situazione, possa scegliere tra più condotte senza far dipendere la decisione da fattori anteriore dalla scelta in sé; la seconda invece individua quanto un soggetto è libero di dar luogo ad una condotta. Nel loro insieme, in relazione a queste due libertà, è possibile scindere tre varianti: una del determinismo puro (l’uomo non ha alcuna libertà e le sue azioni sono dipese da fattori esterni); una del determinismo compatibilista ( un uomo è libero nella misura in cui la sua condotta derivi dai suoi desideri che a sua volta discendono da fattori esterni); una dell’indeterminismo (il soggetto può dar luogo ad una azione in cui sussistono sia la libertà di scelta sia la libertà di azione, prive entrambe di costrizioni provenienti da fattori esterni).
Nonostante in psicologia la stragrande maggioranza dei psicologi sono di matrice determinista ed avere una visione determinista in tema di imputabilità non darebbe una giustificazione alla sanzione in quanto partirebbe dal presupposto che la libertà di azione e quindi la responsabilità del reo discenderebbero sempre da elementi determinati a monte e sempre individuabili oggettivamente nella sua interezza (come ad esempio i comportamenti umani passati e futuri).
Il concetto di autodeterminazione su cui si basa l’art. 85 c.p. sembra ascrivere al soggetto, nel compimento di un fatto penalmente rilevante, un totale controllo mentale e volitivo sulle proprie azioni; questa concezione di imputabilità considera riduttivamente lo stato psicologico che è a monte. L’art 85 c.p. parte dal presupposto di studio di una sana capacità mentale (condizione stabile) evidenziato come ipotesi specialità la sanità mentale; tuttavia nella prassi il giudice ha difficoltà quando dovrà analizzare la presenza o meno di un disturbo o meno idoneo a determinare un totale, parziale, temporaneo o definitivo disturbo di mente (condizione instabile).
Processo penale e capacità di intendere e di volere. La perizia psichiatrica
La perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato è disposta dal Giudice, eventualmente su richiesta delle parti. La procedura ha inizio con la nomina da parte del Giudice di un esperto in materia di psicopatologia e di igiene mentale, ovvero uno psichiatra forense, al quale viene rivolto un quesito che concerne la valutazione dello stato mentale dell’imputato nel procedimento penale al momento della commissione del fatto, al fine di comprendere se l’attuazione del reato sia stata condizionata da una condizione psicopatologica.
È di fondamentale importanza il nesso temporale, ovvero che si deve accertare che l’eventuale psicopatologia fosse presente e florida al momento di commissione del fatto, non solo prima o dopo, ma in quel preciso momento e che questa psicopatologia abbia influito sulla reale attuazione del reato, quindi vi sia nesso di causa tra psicopatologia e crimine.
Secondo il Codice Penale:
“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intere e di volere”. Per il Codice è, quindi, necessario che chi commette un delitto sia in grado di comprendere il valore e il disvalore delle proprie azioni (capacità di comprendere il portato legale della propria condotta e delle sue conseguenze), definita come la capacità di intendere. Inoltre, il soggetto deve anche essere in grado di autodeterminare liberamente il proprio comportamento, senza sottostare ad impulsi particolari, definita come la capacità di volere. Entrambe, capacità di intendere e capacità di volere, devono essere contemporaneamente presenti per definire un imputato “imputabile”.
Il punto di partenza di una perizia è, come si è detto, il conferimento dell’incarico, in cui vi è il giuramento del perito di fronte al Giudice e alle parti e la formulazione del quesito con l’indicazione di modi e tempi per fornire una risposta adeguata da parte del perito.
A questo punto il perito, prima di incontrare il periziando, dovrebbe analizzare e studiare gli atti, al fine di giungere all’incontro con il soggetto conoscendo tutti i fatti oggetto di procedimento, i capi d’imputazione, eventuali precedenti penali e possibili indicazioni cliniche da cartelle mediche dell’imputato, in modo da poter “tarare” fin da subito l’intervista in modo adeguato rispetto al soggetto che si ha di fronte. Dall’esame degli atti il perito si può pre-costituire un’ipotesi di lavoro di partenza su un possibile quadro psicopatologico o clinico che potrà o meno essere confermato, modificato o disconfermato poi dagli accertamenti della perizia tecnica.
Espletata questa prima analisi si passa alla valutazione vera e propria con l’incontro del periziando, con il quale si dovrà procedere ad un lavoro metodologicamente ineccepibile e scientificamente ancorato per rispondere in modo adeguato al quesito peritale.
Normalmente si inizia l’incontro con il periziando con una presentazione generale: conoscenza del perito, spiegazione di cosa gli è estato richiesto, sommaria spiegazione del contenuto della valutazione e spazio ad eventuali domande da parte del soggetto. Terminata questa parte che può essere florida di informazioni in merito alla capacità di comprendere la situazione del periziando si comincia la valutazione, composta da più step:
- Anamnesi: importantissima fonte di informazioni è la storia di vita personale, familiare, medica, clinica e patologica. Questa parte del processo occupa molto spazio ma è di fondamentale importanza per rintracciare elementi che potrebbero essere utili al fine di ricostruire lo stato mentale e fisico del soggetto.
- Esame obiettivo generale, neurologico e psichico: si raccolgono informazioni sul periziando non solo attraverso l’esame medico diretto, ma anche tramite l’osservazione del suo comportamento non verbale (mimica, gestualità, collaborazione, passività, postura, aspetto, cura e igiene, reazioni alle tematiche trattate, orientamento spazio-temporale). Inoltre si raccolgono informazioni circa il suo esame di realtà, il grado di consapevolezza, il profilo linguistico, patrimonio culturale, flusso ideatorio del pensiero, capacità di critica, presenza di stati ansiosi o depressivi, capacità di autocontrollo, valutazione dell’affettività e delle relazioni con gli altri.
- Se necessario, il perito può decidere di dover disporre di esami di tipo strumentale (EEG, TAC, RM) e di esami psicodiagnostici (test psicometrici), meno invasivi dei primi.
- Analisi dei risultati ottenuti e stesura della relazione peritale.
È possibile che alla valutazione siano presenti consulenti di parte (CTP) che collaboreranno con il perito al fine di scegliere la metodologia, i test psicodiagnostici, gli esami clinici a cui sottoporre l’imputato. In ogni caso, rimane al perito l’ultima parola, ma egli dovrà registrare a verbale eventuali obiezioni dei consulenti e spiegare successivamente i motivi per cui si è ritenuto di procedere diversamente rispetto all’opinione dei colleghi.
Inoltre, i CTP avranno modo di contestare o supportare l’operato del perito tramite relazioni tecniche che verranno depositate e lette dal Giudice, al fine di giungere alla decisione finale.
Normalmente al perito viene richiesta anche una valutazione sulla capacità di stare in giudizio dell’imputato, ovvero della sua capacità di partecipare coscientemente al processo, e solamente nel caso in cui venga riconosciuto un vizio parziale o totale di mente, una valutazione sulla pericolosità sociale psichiatrica dell’imputato.
La capacità di stare in giudizio rispecchia lo stato di mente attuale dell’imputato: normalmente si richiede che per non essere riconosciuta la capacità di stare in giudizio vi sia alla base una psicopatologia ben più grave e estensiva di quella necessaria a configurare un vizio di mente, in quanto si deve riconoscere una incapacità funzionale derivata dalla compromissione di aspetti cognitivi e decisionali fondamentali per partecipare coscientemente al processo.
Fornari elenca numerose capacità necessarie al fine di poter partecipare coscientemente al processo. Fra queste vi sono, a titolo d’esempio, la capacità di comprendere il processo in generale e i ruoli dei protagonisti, la capacità di collaborare con il difensore al fine di stabile una strategia difensiva, la capacità di non fornire prove sfavorevoli, comprendere la possibilità della sanzione che potrebbe essere pronunciata e la natura e durata di tale sanzione, etc.
Risulta chiaro quindi che è di fondamentale importanza che l’imputato risulti in grado di difendersi e, nel caso in cui questa capacità viene a mancare a causa di disturbi psicotici, organici o funzionali il procedimento deve essere sospeso.
Per ciò che riguarda la valutazione della pericolosità sociale psichiatrica si deve fare un discorso a parte: questo tipo di valutazione viene effettuata unicamente nel caso in cui si riconosca un vizio di mente nell’imputato, altrimenti non deve essere fornita alcuna indicazione, rispondendo a questa parte del quesito con una formula simile:
“non avendo ravvisato l’esistenza di una patologia mentale pregressa o attuale rilevante ai fini forensi mi esonera dal rispondere al quesito circa la pericolosità sociale del periziando”.
Se invece si ravvisa un vizio di mente si dovrà valutare se sussiste anche la pericolosità sociale, intendendosi con questa formula che vi sia la probabilità che l’imputato commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reato connessi alla patologia mentale identificata. Ne consegue che il suo riconoscimento implica che vengano attuate delle misure di sicurezza, che vanno dalla libertà vigilata al ricovero in una struttura ad hoc.
La valutazione della pericolosità sociale risulta una delle più complesse in quanto si tratta di un giudizio predittivo di probabilità e non di analisi di fatti già attuati. Per questo motivo la sua valutazione è da anni al centro di numerose critiche in ambito giuridico, psicologico e criminologico.
Dalle ricerche scientifiche emerge infatti che nei criminali recidivi la malattia psichiatrica è poco rappresentata a livello percentuale, il reale rischio di condotte violente non è collegato alla patologia mentale (ad eccezione di doppia diagnosi con aggiunta di abuso di sostanze) e per il fatto che gli strumenti predittivi finora utilizzati si sono dimostrati molto imprecisi, a causa della stessa natura unica e imprevedibile del comportamento umano. Inoltre come scrive Fornari spesso il giudizio di pericolosità si basa sul comportamento emesso e si trascura la connessione con la malattia psichiatrica, fornendo in questo modo una valutazione di competenze del magistrato e non del perito.
Pericolosità sociale psichiatrica e pericolosità sociale giuridica sono infatti concetti differenti da tenere bene a mente: il primo si riferisce alla necessità attuale di cure e assistenza specialistica coattiva e deve essere graduata dallo stesso perito in elevata o attenuata sulla base del riconoscimento di determinati fattori di rischio di recidiva identificati; il secondo fa riferimento alla dimensione prognostica di potenziale reiterazione del fatto, avulsa dal concetto di malattia, ed è esclusivo compito del magistrato accertarla.
Allo stato attuale della letteratura e degli studi scientifici risulta quindi molto complicato dare un valore scientifico al giudizio sulla pericolosità sociale psichiatrica se intesa unicamente come giudizio prognostico di commissione di ulteriori reati. La letteratura, tuttavia, fornisce tutta una serie di criteri, definiti per lo più fattori di rischio, che devono essere analizzati al fine di fornire una valutazione il più possibile scientificamente fondata.
Esistono, infatti, degli indicatori interni o esterni, evidenziati da Fornari, che possono aiutare il perito nel suo compito di valutazione della pericolosità sociale psichiatrica. Come indicatori interni, ovvero possibili fattori di rischio connessi al rischio di recidiva che possono indicare un’elevata pericolosità sociale, vengono considerati: presenza di una florida sintomatologia psicotica, partecipata a livello emotivo che ha permesso di attribuire al reato “valore di malattia”;
-compromissione dell’insight (consapevolezza della malattia) scarsa adherence (aderenza alle prescrizioni sanitarie);
-compliance inadeguata (rispetto al trattamento attuato);
-segni di disorganizzazione cognitiva, impoverimento ideo-affettivo e psico-motorio.
Come fattori esterni vengono considerati:
-alcune caratteristiche dell’ambiente familiare e sociale di appartenenza;
-adeguatezza dei servizi psichiatrici di zona;
– possibilità di reinserimento lavorativo;
-livello di accettazione generale per il rientro del soggetto nell’ambiente sociale e familiare di appartenenza; -opportunità alternative di sistemazione logistica.
Un approccio simile, ma diverso da quello proposto da Fornari, ma in grado di fornire utili indicazioni è ravvisabile in una valutazione il più possibile completa del funzionamento psichico del soggetto collegato agli aspetti più propriamente connessi alla pericolosità sociale e tenendo conto anche del contesto familiare, sociale e di appartenenza dell’imputato. Un modello di questo genere è quello di Lorettu e Lilia (2001) che identifica le seguenti variabili da analizzare: -elementi obiettivi criminologici; -ricostruzione degli avvenimenti e analisi dei fattori concomitanti il fatto che possono aver causato il passaggio all’atto; -informazioni vittimologiche; -possibile interazione patologica tra vittima e autore che ha favorito l’azione delittuosa; -informazioni anamnestiche; -compresi schemi di comportamenti criminali precedenti, meccanismi di difesa psicologici e aree di fragilità soggettiva; -fattori statici: psicopatologia e precedenti criminali personali e familiari; fattori situazionali: condizioni che possono aver favorito la genesi del reato; fattori dinamici: possibili catalizzatori del comportamento antisociale; aspetti psichiatrici: esame dello stato mentale del soggetto.
Altri modelli sono presenti in letteratura, tutti incentrati sull’analisi dei fattori di rischio e dei fattori di protezione, ma da soli, non sono sufficienti. È infatti opinione comune della comunità scientifica che il solo metodo clinico non fornisca sufficienti garanzie di oggettività e quindi si ritiene necessario affiancare all’indagine clinica sopradescritta un’analisi “testistica” specifica che fornisca una misurazione del rischio di recidiva.
Si evidenzia che, come richiesto dalla giurisprudenza, il grado di pericolosità sociale deve essere sempre accertato e in nessuna circostanza potrà essere unicamente presunto.
All’indagine tecnica peritale è dunque richiesto di accertare l’eventuale presenza e la gravità di un disturbo mentale che abbia contribuito in tutto o in parte all’azione delittuosa (capacità di intendere e di volere), se questo disturbo mentale infici la capacità di partecipare coscientemente al processo e, in ultima analisi se questo disturbo sostenga la pericolosità sociale del soggetto.
Per valutare la pericolosità sociale, inoltre, devono essere presi in considerazione anche altri fattori, quali la possibile attuazione di una terapia adeguata e ragionevolmente efficace in regime di misure di sicurezza e la possibilità di modificare i fattori bio-psico-sociale (o indicatori interni e esterni, come prima denominati) che concorrono a sostenere il rischio di recidiva.
La perizia neuro scientifica un esempio pratico
Soffermiamoci subito sul fatto. Nel 2009 una donna, sequestrata la sorella maggiore, ne causò la morte somministrandole dei psicofarmaci ed infine fece sparire il corpo, bruciandolo. Quando era ancora indagata dalla p.g. tentò altresì di strangolare la madre mediante l’utilizzo di una cintura in seguito ad un discussione. Contro al donna venne formulata una imputazione dal p.m. con i seguenti capi di accusa: sequestro di persona, omicidio, soppressione e distruzione di cadavere, procurata incapacità incapacità di intendere e di volere al padre per aver costretto in ospedale con la somministrazione di farmaci, tentato omicidio e strangolamento. La caratteristica primaria è che il Gip di Como, ha riconosciuto nella fase delle indagini preliminari il vizio parziale di mente con l’ausilio di tecniche neuro scientifiche. Durante lo svolgimento del processo la imputata è stata sottoposta a tre perizie psichiatriche che hanno dato responso diverso l’una dall’altra: totale incapacità, seminfermità, capacità di intendere e volere. La scelta operata dal Gip di Como trova le sue basi in forza delle difficoltà proprie delle scienze psichiatriche essendoci taluni problemi come stabilire il confine tra sanità e malattia mentale oppure trovare una diagnosi comune alla luce di più perizia richieste da soggetti diversi (ctu o ctp). Nel giudizio il giudice, per la valutazione del fatto, deve far riferimento alle peculiarità delle categorie penalistiche perché nel suo convincimento deve valutare la forza persuasiva delle prove; in aggiunta è opportuno ricordare che quanto stabilito dai periti è un parere e per questo mai vincolante.
Si è fatto riferimento a questo caso perché sembra essere quello che più facilmente può spiegare il connubio tra psichiatria e neuroscienza: la neuroscienza è uno strumento chiarificatore delle perizie degli esperti scientifici – una (la neuroscienza) è completamento della scienza psichiatrica condivisa.
Con il solo giudizio del perito non è possibile pervenire ad una certezza scientifica ma è possibile operare un giudizio che sia più compatibile possibile con quello che può essere accaduto nella realtà (verità virtuale o processuale). Ci siamo soffermati sulla neutralità e imparzialità con cui il perito deve agire nella analisi dell’esaminato; non ha caso si è esaminato il termine esaminato o paziente in quanto tra tecnico e pazienza viene implicitamente a crearsi una simbiosi, una empatia che determinerebbe un giudizio oggettivo (analisi tecnica) soggettivizzato (che tiene conto dei fattori di influenza esterni, per es. il suo passato, il suo stato familiare). A modesto parer di chi scrive, è proprio questo che manca al perito un giudizio tecnico che tiene conto della soggettività della persona; in questo modo pur avendo un allargamento dei poteri del perito avremmo un’analisi tecnica più veritiera e idonea a garantire il più alto grado di compatibilità con quello che può essere accaduto e con la realtà fattuale. Il perito con l’ascoltare il suo interlocutore può spingersi oltre l’analisi del mero comportamento e pertanto capire il motivo che sottende a quel comportamento antigiuridico. Questa visione del perito in ogni caso sarebbe ancora confutabile da altre perizie e per avere un giudizio inoppugnabile è possibile utilizzare gli strumenti della neuroscienza come mezzi ulteriori e completivi di conoscenza del comportamento. Ritornando al caso in esame, la decisione presa dal Gip è stata ritenuta troppa generica e fondata su solo due esami clinici e si è fatto leva su nuovi mezzi probatori addotti dalla difesa alla luce di quanto delineato nell’art 187 e 189.cp.
Il giudice ha ritenuto sussistenti i requisiti prescritti per l’ammissione della prova atipica per avvalersi di un mezzo ulteriore rispetto alla consolidata opinione della prova scientifica strumentale alla perizia; le neuroscienze permettono grazie alla tecnica dell’imaging cerebrale di fotografare il meccanismo cerebrale senza inquinare la soggettività che rimane estranea alla foto. Queste nuove tecniche sono preferite alle scienze comportamentali perché queste ultime sono spesso tra loro configgenti; il giudice ancora afferma che “gli esiti di tali accertamenti sono apparsi significativi perché hanno consentito di acquisire ulteriori elementi a conforto della diagnosi cliniche già operate”. Di certo non vi è una assoluta certezza ma ciò che rileva è che nuovi metodi strumentali alle perizie corroborano il giudizio del giudice. La decisione del giudice discende da una valutazione “statistica”: se l’infermità mentale è stata tale da menomare la capacità di intendere e volere, oltre ogni ragionevole dubbio, e c’è un nesso eziologico tra danno psichico e condotta illegittima, viene a configurarsi una parziale incapacità di intendere e volere.
Dalla analisi fin qui effettuata si capisce come procedono le scienze neuro scientifiche:
- a) individua la basi neurali e le riconduce a una certa capacità o funzionalità del cervello;
- b) indagine sull’integrità dei circuiti neurali;
- c) spiega i disturbi della psiche attraverso le disfunzioni cerebrali scoperte;
Il metodo osservazione – descrizione – spiegazione risponde al quesito sulla modalità in cui si estrinseca la condotta dell’uomo ed è funzionale ad ottenere una maggiore oggettività della diagnosi che dal punto di vista processuale discende in maggior persuasività della prova scientifica. Le tecniche di neuro-imaging funzionano misurando il consumo energetico del cervello in relazione al consumo del glucosio nelle diverse regioni cerebrali e, ai nostri occhi, ogni area cerebrale è maggiormente colorate laddove ci sia una maggior consumo energetico; è ben chiarire qui che la diversa cromìa permette di visionare l’area dove vi è maggior attività cerebrale e non anche ciò che giustifica la diminuzione della attività. Oltre la oggettività ulteriore caratteristica è la persuasività di un metodo in special modo se la diagnosi è svolta da un esperto; senza dubbio tali mezzi innovativi hanno un tasso di oggettività maggiore rispetto alle perizie ma, sulla scia di un “tardo positivismo”, è possibile confondere l’oggetto di analisi. L’oggetto di analisi del diritto resta sempre il soggetto e il suo comportamento e non il corretto meccanismo cerebrale.
Le neuroscienze forensi: la sentenza della Corte d’Assise di Trieste
Con la nozione di neuroscienze forensi s’intendono l’incontro tra il sapere neuroscientifico e il foro, nella ricerca di una prova che sia punto d’incontro tra diritto e scienza.
La prova oltre ogni ragionevole dubbio è ciò che ricerca l’avvocato, è il mezzo attraverso il quale il giudice giunge ad una esatta decisione. I nostri tribunali sono da sempre restii a far entrare nel diritto sapere scientifici in grado di oggettivizzare la capacità di intendere e volere e per questo motivo è fondamentale lo studio, al pari di quello effettuato nel precedente paragrafo, della sentenza del settembre 2009, in quanto è con essa che vi è l’ingresso effettivo delle neuroscienze nel diritto.
Tale ingresso fa sorgere la nuova disciplina delle neuroscienze forensi che di fatto studiano in prospettiva scientifica il diritto e la prova; la sentenza in esame è tra le prime nella quale le decisione del giudice consiste in una diminuzione della pena alla luce di una incapacità parziale di intendere e volere derivante da analisi neuroscientifiche.
Ad ora soffermiamoci sulla sentenza emanata nel 2009 dalla Corte di Assise di Trieste.
Analisi del fatto: Il P.M. di Trieste aveva formulato la imputazione a carico di un soggetto extracomunicatorio di aver ucciso a Udine un altro extracomunitario dopo una lite per delle offese arrecate dalla vittima all’omicida; è bene altresì sottolineare che la vittima era una persona diversa rispetto a chi lo aveva verbalmente offeso, essendoci di fatto una “abberatio ictus”. Ancora è opportuno precisare che l’imputato aveva una lunga storia psichiatrica e le precedenti perizie psichiatriche parlavano di “una patologia psichiatrica importante, di stampo chiaramente psicotico; la maggior parte dei dati disponibili depongono per un disturbo caratterizzato da alterazioni del pensiero e delle percezioni, in forma soprattutto di deliri interpretativi e/o di intuizioni deliranti.
Analizzato il fatto, è opportuno sottolineare che ai fini della ricerca sarà preso in esame il medesimo quesito che il G.I.P. fece al perito, Prof. Giuseppe Sartori: che stato di mente aveva l’imputato al momento del compimento del fatto?
La perizia venne svolta al pari di uno studio scientifico, consistente nell’intervista clinica e nell’approfondimento del quadro psicopatologico mediante test psicodiagnostici a cui venne aggiunto un esame neuropsicologico mirato a quelle componenti cognitive e si è conclusa con l’accertamento di una capacità di intendere e volere grandemente scemata accompagnata, nello specifico, da una difficoltà di ragionamento astratto, una difficoltà di concentrazione ed attenzione, una difficoltà a carico delle funzioni mnestiche e un importante deficit di intelligenza sociale (in particolare una incapacità di mettersi nei panni altrui e di valutare i comportamenti socialmente accettabili).
Questo quadro ha impedito all’imputato di interpretare correttamente la situazione nella quale si trovava. Egli infatti, a causa della sua personalità dipendente avrebbe agito sulla base della influenza negativa di suggerimenti dati da un amico. Inoltre a causa della suo deficit di intelligenza sociale non è stato in grado di comprendere che, nella nostra società, il suo modo di esporsi, assolutamente normale nella sua cultura, è all’origine di una impressione ineludibile (omosessualità). Questi deficit però nel loro complesso non erano di livello talmente grave da abolire la capacità di intendere (vizio totale). Anche la capacità di volere era grandemente scemata ma non abolita.
Per tali motivi il Giudice si pronunciò sulla questione condannando l’imputato per omicidio, ma diminuendone la pena vista una parziale incapacità di intendere e volere.
Questo caso è paradigmatico perché permette di analizzare la questione da due punti di vista:
a) punto di vista neuroscientifico: l’imputato è stato condannato per il reato di omicidio alla luce di una incapacità di intendere e di volere parziale accertata scientificamente.
b) punto di vista etico-morale: l’imputato è stato condannato per il reato di omicidio alla luce di una incapacità di intendere e volere parziale dovuta a una “vulnerabilità genetica” che renderebbe l’imputato “particolarmente reattivo in termini di aggressività”.
La sentenza della Corte d’Appello d’Assise di Trieste poggia le sue basi su di una genetica malformazione del soggetto, accertata tra l’altro scientificamente, che impossibilita il soggetto nel differenziare ciò che è bene da ciò che è male.
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